«Per me l’inuguaglianza femminile non è fatta dei temi delle rivendicazioni, ma è ancorata nella intera visione del mondo; ergo, se io faccio un dizionario (che comprende le intere parole dello scibile), devo fare il giro anzitutto delle radici di quest’albero della inuguaglianza», scriveva decenni fa Alice Ceresa, autrice di un testo capitale – pubblicato postumo – come il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (nottetempo).
Dunque, facciamo questo giro dell’albero. La lingua plasma, crea, inventa, fa e disfa, dismette; la lingua è viva e non è uno specchio, piuttosto un megafono, una spia; la lingua ci interroga e va interrogata, raccoglie istanze, setaccia da sé. La lingua ha bisogno di tempo, lo stesso tempo che di continuo la modifica e nel quale sembra impossibile intercettarla una volta per tutte. Lo si fa, in parte, con i dizionari di fine anno, che istituzionalizzano i neologismi e consacrano le parole più usate (e, con meno clamore, ci lasciano guardar decadere quelle non più di moda).
Il fatto linguistico più rilevante del 2022 per quanto concerne la politica italiana ha riguardato la presidenza del Consiglio, ovvero la scelta, da parte della prima donna a ricoprire la carica, di farsi chiamare “il presidente”, usando correttamente la parola epicena, ambigenere, rispetto alla dispregiativa “presidentessa”, ma con una precisa volontà di apporre l’articolo maschile.
Per difendere questa scelta, sono state tirate in causa la libertà di essere chiamati come si desidera, facendo per esempio riferimento alla richiesta di riconoscimento di chi non si rispecchia nel proprio sesso di nascita. Però la presidente del Consiglio non ha scelto il maschile per ogni aspetto della sua vita, ma solo per la carica che ricopre. Il maschile è per lei (che altrove tiene a definirsi “donna e cristiana”) il genere associato al potere: così, la prima donna in Italia a ricoprire quella carica decide, nelle sue funzioni, di rinunciare alla più radicale trasformazione dell’immaginario che quell’opportunità offre: declinare, finalmente, al femminile una parola che pure quel femminile contiene.
La donna, la cristiana, la madre, ma: il presidente. Quella che a lei sembra una forma di forza, è in realtà una profonda debolezza: per essere autorevole, devo neutralizzarmi, fingermi qualcun altro. Per essere accettata, devo nascondere alla lingua il mio stesso corpo rendendo di fatto impossibile non solo dire ma anche pensare frasi come “il presidente ha le mestruazioni”, “il presidente è incinta”. Il messaggio che arriva da questa posizione è il contrario del queer o della libertà: nell’immaginario linguistico generato da quella che dovrebbe essere la prima delle conquiste delle donne, anche nel 2022 il potere è rimasto saldamente maschile.
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