Era il 17 ottobre 1973 quando la poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, che aveva scelto Roma come città in cui vivere, si spense nel reparto grandi ustionati dell’ospedale romano Sant’Eugenio, dopo ventidue giorni di agonia.
Le circostanze della sua morte rimangono a tutt’oggi misteriose, impenetrabili, per non dire sinistre; d’altra parte è la stessa Bachmann ad averci messo in guardia sulle cause di morte che non sono mai solo quelle che appaiono: Cause di morte è anche il titolo di un ciclo di libri, avviato nel 1971 con il romanzo Malina, e rimasto incompiuto.
Leggibile sui più diversi piani, immediato e insieme carico di riferimenti nascosti, quasi temerario nel toccare anche l'attualità più intrattabile o la più proibita realtà dei sentimenti, questo romanzo narra una storia che ha la massima concretezza, facendola però coincidere con un delirio segreto che appartiene a un'altra realtà, con una favola nera che un mondo visibile potrebbe difficilmente ospitare.
Ed è proprio alla fine di Malina che Bachmann affida alla voce narrante femminile, identificata come “io”, un presagio di morte, della propria morte, anticipandone in tralice le cause:
Debbo stare attenta a non cadere con la faccia sul fornello, a non mutilarmi da sola, a non bruciarmi da sola.
Un altro riferimento al fuoco compare anche nella parte iniziale dello stesso romanzo, quando, tra le frasi dei libri che più le sono rimaste impresse, “Io” cita un verso di Jacopone da Todi, «In foco l’amor mi mise»; ma già molti anni prima, nel 1956, nei versi che chiudono la poesia Spiegami, amore, che si trova all’interno della seconda raccolta poetica di Bachmann, dal titolo Invocazione all’Orsa maggiore, incontriamo una salamandra che guizza tra le fiamme senza provare dolore, e soprattutto sopravvivendo indenne al fuoco. Anche qui il rimando è alla poesia, a un sonetto di Gaspara Stampa, Amor m’ha fatto tal ch’io vivo in foco, il cui celebre verso «vivere ardendo e non sentire il male» viene citato, guarda caso, anche nel finale di Malina.
Una poesia multiforme, cangiante, dove classico e moderno si fondono in versi ora audaci e spigolosi ora di chiara musicalità, e lo sguardo della Bachmann si mostra attento a cogliere la violenza della realtà e il dolore, in particolare nei paesaggi italiani, luminosi e arcaici, feriti e vitali, lontanissimi dai cliché della tradizione classico-romantica.
Nella relazione amorosa la metafora del fuoco sembrerebbe allora non essere più solo una metafora, bensì una profezia che tragicamente si auto avvera.
Al di là dei riferimenti autobiografici, il fuoco resta un’immagine viva e prolifica, che possiamo ritrovare già in molte poesie dell’Invocazione che oggi, a cinquant’anni esatti dalla morte di Ingeborg Bachmann, Adelphi pubblica in una nuova edizione con testo a fronte di Luigi Reitani e nota di Hans Höller, con un notevole corredo iconografico e soprattutto con il commento, tradotto da Laura Ragoni, a cui lo stesso Reitani, curatore del sesto volume dell’Edizione salisburghese delle opere complete di Bachmann, ha lavorato fino all’ultimo, prima di morire nel 2021.
Quale modo migliore per ricordare questo anniversario, per consentire a chi non conosce Bachmann di immergersi nei suoi versi, e a chi la conosce di percorrere e riportare alla luce i “fiumi carsici” che attraversano la sua opera (l’immagine dei fiumi è di Ilaria Gaspari che in occasione dell’anniversario ha curato per Emons il podcast in sei puntate sulla scrittrice).
È grazie alla poesia che Bachmann inizia a scrivere, pubblicando prima, nel 1953, Il tempo dilazionato, e tre anni dopo, L’invocazione all’Orsa Maggiore che rappresenta, come ha scritto Reitani, «una pietra miliare nella storia della poesia della lingua tedesca», e non solo.
Leggendo l’Invocazione ci si trova di fronte a un’opera davvero complessa, in cui il prezioso commento di Reitani ci viene in aiuto, svelandone la non semplice gestazione, l’architettura, i ricchi riferimenti intertestuali, la varietà impressionante delle forme metriche e strofiche; e soffermandosi sulle immagini che la attraversano, come il Feuer (fuoco), la Nacht (notte) e il Land (paese, terra).
E tuttavia il lettore è subito catturato da un immaginario che il critico Roberto Galaverni ha giustamente definito “possente”; merito anche della natura dialogica delle poesie, rafforzata dall’uso frequente dell’invocazione - all’Orsa, al fratello, all’amore, alla parola, al vero, al sole - che cerca di avvicinare, come osserva Höller, il poeta al lettore, e viceversa.
Qual è il senso della poesia? E, soprattutto, con quali mezzi e in che modo un poeta promuove il senso della sua poesia? Galaverni risponde collocandosi in un territorio fluido che sta tra la lezione, il saggio, il commento, la riflessione sulla natura della poesia e la cartografia storico-poetica, e realizzando il resoconto di un’esperienza in atto di lettura e d’interpretazione.
Alla parola Bachmann chiede di essere “libera, chiara, bella”, alla parola si affida per essere salvata (Discorso e diceria). La poesia è una sorta di fuoco depuratore che consente alle parole di germogliare, come si evince da Colle di cocci, di essere vere, di essere efficaci, avere cioè presa sul reale.
Questa ricerca di autenticità si scontra con le menzogne che si annidano nel linguaggio, con l’inadeguatezza del linguaggio a dire il dolore, e più di tutto con la condanna a «essere sempre nelle parole, che lo si voglia o no», a non colmare la distanza tra vita e parola (Non conosco mondo migliore, Guanda).
Ciononostante la poesia, come del resto la letteratura, deve perseguire il vero, usare il linguaggio in modo responsabile: in questo modo soltanto si può compiere la sua natura sovversiva e utopica, ovvero la sua capacità, come ribadito nelle Lezioni di Francoforte, di mutare il mondo, di aprire un varco, una crepa nel muro: immagine, questa della crepa, che chiude la poesia Quel ch’è vero, ma anche, e non a caso, il romanzo Malina.
Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960. In poche pagine limpide e vibranti vediamo l’essenza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire – per lei, almeno – su tutto.
Se siamo veri, lo siamo di notte, appena stiamo completamente soli.
È nella notte, luogo dello spaesamento e insieme dello svelamento, che la ricerca del vero trova un luogo fertile (ed è specialmente di notte che Bachmann scrive). Ma la notte è “arruffata”, come nella celebre poesia che dà il titolo alla raccolta, e di fronte alla personificazione della costellazione i pastori, sebbene ammaliati, non possono che diffidare, e le vaghe stelle leopardiane diventare “stelle occhi” e soprattutto “stelle artigli”. L’immagine dell’Orsa è minacciosa, addirittura apocalittica nel suo incarnare il Male della Storia: a quella notte, a quella vecchia orsa non ci si può però sottrarre.
D’altra parte, la luce del sole, se inizialmente ci appare salvifica, come nella poesia Al sole, alla fine della stessa si rivela rovina ineluttabile per gli occhi, pericolo per lo sguardo. Solo «La notte apre le mappe, tacendo le mete» (Di una terra, un fiume e dei laghi).
Di vere e proprie mappe si può parlare inoltrandosi in questo libro, dove i luoghi rivestono un ruolo fondamentale, come si vede dalla topografia e dall’immagine dell’Italia a cui è dedicata la terza sezione; e Armonie e Luoghi era infatti il titolo che originariamente Bachmann aveva pensato, ma che non aveva convinto l’editore Piper. Ai luoghi natii fanno riferimento le poesie della prima sezione, dove la Carinzia diviene un luogo edenico; a quella patria perduta guarda con nostalgia l’io lirico, sempre in viaggio, in fuga, in esilio.
«L’esito del legame con la patria» osserva acutamente Reitani, «si potrebbe formulare in un paradosso – è la fuga dalla patria stessa. Essa continua a esistere, ma solo a distanza. Viene ricreata nella lingua».
"Il libro Franza" non è solo un viaggio attraverso una malattia. Questo è un libro che parla di un delitto. Esso tenta di far conoscere, di ricercare qualcosa che non è scomparso dal mondo. Oggi è soltanto infinitamente più difficile commettere delitti, ecco perché questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad accorgercene e a comprenderli, benché vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, "tra i nostri vicini di casa.
A sancire per sempre il distacco dalla patria è l’occupazione nazista nel 1938 di Klagenfurt, dove nel 1926 Bachmann è nata. Di questo evento storico traumatico le poesie non fanno mai menzione - al contrario del romanzo incompiuto Il libro Franza, in cui la parola occupazione ossessiona la protagonista - e però tracce di questa ferita sono disseminate ovunque.
L’impossibilità del ritorno appare nella poesia che apre l’Invocazione, dal titolo emblematico Il gioco è finito, in cui si allude alla perdita definitiva dell’infanzia, rappresentata dall’amore tra due fratelli, tema da cui prende le mosse il già citato Libro Franza. Patria e infanzia sono indissolubilmente legate, coincidono.
A chiudere l’Invocazione all’Orsa Maggiore sono I canti lungo la fuga, quindici componimenti molto diversi tra di loro, ma che rappresentano, come evidenziato nel commento di Reitani «una mise en abyme formale e tematica dell’intera raccolta».
E nell’immagine conclusiva - «solo tramontare intorno a noi di stelle. Riflesso e silenzio» - che allude alla solitudine cosmica in cui navighiamo, al senso di fine che ci accompagna nella nostra avventura mortale, è alla poesia che Bachmann si affida per scongelare le parole che in quel lungo e rigido inverno, in cui i canti sono stati scritti, devono esserle sembrate perdute. E invece:
il canto sulla polvere dopo,/ alto si leverà su di noi
Di
| Adelphi, 2023Di
| Adelphi, 1987Di
| Adelphi, 1993Di
| Adelphi, 2009Di
| Adelphi, 2006Di
| Adelphi, 1994Di
| Adelphi, 2011Di
| Adelphi, 1991Di
| Adelphi, 1986Di
| Marietti 1820, 2009Di
| Quodlibet, 2022Di
| Cronopio, 2011Di
| Adelphi, 1998Di
| Nottetempo, 2010Gli altri approfondimenti
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