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Veganuary: tra mode e diritti

Illustrazione digitale di Asia Cipolloni, 2023

Illustrazione digitale di Asia Cipolloni, 2023

Premessa: per trattare i temi delicatissimi del veganismo, della cultura gastronomica e dell’antispecismo ci vorrebbero uno o più libri. Questo articolo vuole solamente essere uno spunto critico di riflessione. Se non siete vegani, vi chiedo di darmi fiducia e leggere con piena apertura mentale. Nessuno vi costringerà a cambiare il vostro stile di vita, ma avrete informazioni e strumenti per capire perché io e altre persone l’abbiamo fatto. 

Il 9 gennaio 2023 è andato in onda su Report un servizio della giornalista Giulia Innocenzi su Fileni, azienda che vende carne di pollo. Mettendo in luce le pessime condizioni di vita dei polli (inclusi quelli “bio”) e la pericolosità per la salute umana della situazione negli allevamenti, ha creato un discreto dibattito in rete, con articoli di approfondimento o di ridimensionamento del problema.

Allo stesso tempo, sempre a gennaio, in molti si cimentano nel “veganuary”, iniziativa nata nel Regno Unito che sfida i non vegani a mangiare esclusivamente vegetale per tutto il mese.

Da una parte, abbiamo un servizio che può scoraggiare il consumo di carne (come minimo quella di pollo) o, spingere le persone a farsi qualche domanda in più su ciò che hanno nel piatto. Dall’altra parte, troviamo un’iniziativa che vuole proattivamente accompagnare le persone verso un percorso etico e gastronomico, con tanto di newsletter con suggerimenti, ricette e motivazioni per cui bisognerebbe smettere di consumare prodotti animali.

Da persona che ha scelto il veganismo da qualche anno, posso dire con certezza che abbiamo bisogno di entrambe le cose.

Sebbene possa sembrare che negli ultimi anni il veganismo sia stato leggermente sdoganato, per esperienza devo annunciare che non è così. Innanzitutto, trovare cibo vegano nei ristoranti, anche banalmente in pizzeria, è ancora difficile. In secondo luogo, per quanto l’alimentazione vegetale stia guadagnando rispetto e accettazione, rimane solamente questo: alimentazione vegetale. Viene rigorosamente chiamata “plant based” e raramente vegana. 

Attenzione, non si tratta di due cose diverse. L’alimentazione vegetale è vegana. Ma una persona che ha una dieta vegetale, non è necessariamente vegana.

Il veganismo è uno stile di vita nato nel 1944  “che cerca di escludere, per quanto possibile e praticabile, ogni forma di sfruttamento e di crudeltà verso gli animali per il cibo, l’abbigliamento o qualsiasi altro scopo.” Il veganismo, in altre parole, vuole limitare al massimo la sofferenza di ogni specie senziente.

Il termine potrebbe includere la volontà di limitare i danni ambientali e il cambiamento climatico, perché alla fine sono fonte di sofferenza. Sempre più persone, infatti, adottano il veganismo per contribuire ad arginare i disastri ecologici. Considerate che almeno un terzo di tutta l’acqua potabile utilizzata dall’uomo è destinata al bestiame: l’allevamento è la principale causa di deforestazione e fonte di emissioni di metano. Potrei andare avanti con i dati, che sono ampiamente reperibili online.

L’efficacia della dieta vegetale per combattere i cambiamenti climatici è stata affermata e provata più volte, sebbene, perché ci sia davvero un cambiamento, dovrebbero adottarla tutte e tutti. Ci sono anche proposte alternative, come quella di Jonathan Safran Foer in Possiamo salvare il mondo prima di cena che suggerisce di fare due pasti vegani su tre al giorno per mantenere una soglia di emissioni annue che permettano di rispettare gli standard dell’Accordo Internazionale di Parigi sul clima. Anche in questo caso, dovrebbe essere una dieta adottata praticamente a livello globale.

Ma questa proposta esclude sia i prodotti animali non alimentari (a cui però si potrebbero trovare alternative facilmente nella maggioranza dei casi) sia la chiave di volta del veganismo: la riduzione della crudeltà e dello sfruttamento degli esseri senzienti. E la bistecca che mangeremmo anche solo una volta al giorno deriva comunque dalla morte di un essere senziente che quasi sicuramente non voleva morire per finire nel nostro piatto.

La convinzione secondo cui gli esseri umani sono superiori agli altri animali, e perciò godono di maggiori diritti, è stata definita “specismo” dallo scrittore Richard Ryder ed è stata approfondita ampiamente dal filosofo Peter Singer.

Nel suo libro Liberazione Animale, Singer sviluppa diversi ragionamenti filosofici ed etici dimostrando che la prospettiva specista è infondata. Uno di questi è l’argomento dei casi marginali, che contrasta ogni criterio di supposta inferiorità degli animali trovando casi simili negli esseri umani. Ad esempio, ipotizziamo che una mucca sia inferiore a noi perché non ha un sua concezione del sé e per questa inferiorità può subire una serie di sofferenze fino all’uccisione. Singer direbbe che anche i neonati non hanno una concezione del sé. Tratteremmo mai i bambini come trattiamo le mucche?

Con questo, Singer non suggerisce di mangiare i bambini, sono degli esempi, appunto, marginali. Vuole però far notare come non ci sia davvero una giustificazione logica allo specismo. Fondamentalmente, infliggiamo sofferenza perché possiamo farlo. Scegliamo che un cane è un fratello e un maiale è un arrosto perché possiamo farlo.

Ma la crisi climatica ed ecologica ci insegna che il nostro essere apparentemente in cima alla piramide alimentare, grazie alle innovazioni tecniche e tecnologiche, non ci permette di esaurire tutto ciò che sta sotto. Se crollano le fondamenta, la piramide si sgretola. Non siamo i padroni del mondo e non lo siamo mai stati.

Mi riferisco ovviamente alla parte del mondo benestante che, pur avendo alternative ai prodotti animali, continua a finanziare gas serra e sofferenza in una vera e propria industria. È la parte del mondo a cui appartengo io, che può mettere in atto politiche per facilitare il passaggio a una dieta vegetale e a uno stile di vita vegano, rispettoso e compassionevole e supportare chi vive di allevamento in una riconversione lavorativa (che, con le siccità sempre più frequenti, converrà sicuramente di più).

Rimane il tema culturale e gastronomico, ma anche in questo caso ci sono alternative e innovazioni per sostituire gli allevamenti. 

Temo che, arrivati fin qua, potreste dire che comunque i vegani sono estremisti che giudicano il resto delle persone. Da vegana, non vi giudico. Una persona buona può fare cose sbagliate, insegna il divulgatore Ed Winters nel suo This is Vegan Propaganda. Ma non vedo perché la società contemporanea, così avanzata e sviluppata, non dovrebbe dare valore al rispetto della vita, alla compassione e alla cura.

Spero che possiate riflettere e fare scelte libere e informate dopo questo articolo e leggendo i libri che ho consigliato nel testo. Non smettete mai di informarvi, anche se le informazioni non sono piacevoli. Nonostante vi sentirete dire che l’ignoranza sia beatitudine, questa cosiddetta beatitudine ci sta mandando in rovina.

I testi per approfondire

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