Alle volte gli eventi della storia parlano più per le difficoltà che testimoniamo che non per ciò che è accaduto.
La marcia del sale è un ottimo esempio.
La manifestazione si svolge contro la tassa sul sale, su cui vige un assoluto monopolio imperiale, imposta dal governo britannico a tutti i sudditi dell'India, residenti europei compresi. Consiste in una marcia di oltre trecento chilometri a piedi da Ahmedabad a Dandi, nello stato del Gujarat, sull'Oceano Indiano, con lo scopo di raccogliere una manciata di sale dalle saline, rivendicando simbolicamente il possesso di questa risorsa preziosa al popolo indiano.
Il 12 marzo 1930 Gandhi muove da Ahmedabad nella zona occidentale dell’India per raggiungere Dandi, nello stato del Gujarat, sull'Oceano Indiano. Arriva il 5 aprile dopo aver camminato per 300 km verso sud.
Raccogliere del sale, risorsa dichiarata non libera né gratuita dall’Impero britannico che governa l’India, è dunque compiere un atto di disobbedienza civile. Si potrebbe dire che è un gesto con cui si rivendica la possibilità di riprendersi non solo il diritto all’uso della propria terra, ma anche dichiarare di chi sia l’India. Questo è quello che risponde Gandhi a chi gli chiede quale sia la forza del movimento e la natura della sua leadership:
Il centro della questione non è nella forza, bensì nella capacità di esprimere controllo
La reazione delle autorità all’avvicinarsi dei marciatori verso la spiaggia per raccogliere il sale accumulato è immortalata in molte immagini: i manifestanti camminano pacificamente, la polizia e l’esercito britannico reagiscono violentemente, bastonandoli, ma il popolo non si difende.
Alla fine gli arrestati sono circa 60.000 - Gandhi incluso.
E tuttavia l’effetto sarà, proprio per la violenza prodotta, controproducente per l’Impero.
Nella primavera del 1931 è rivista la legge sul monopolio del sale e tutti gli arrestati vengono liberati.
Quella scena dunque, se noi ci limitassimo a considerare gli eventi di 93 anni fa, racconta di scelte, di violenze, di decisioni, ma soprattutto di un modo di far politica.
A lungo e molte volte l’episodio è stato raccontato come atto eroico, come il senso della storia del processo di liberazione dell’India.
Giustamente. E anche in questo articolo, la vicenda è stata proposta come una dei cardini della non violenza.
Se volessimo tornare oggi su quella scena, tuttavia, credo che ricostruire lo scenario di 93 anni fa, per quanto indispensabile e imprescindibile, non sia di per sé sufficiente.
Il tema non riguarda se abbiamo memoria di quell’ evento, ma se oggi entri nello scenario delle cose da ricordare, perché e con quale obiettivo.
L’India odierna vuole ricordare?
Sembrerebbe di no, anche se come spesso capita nei sistemi politici che hanno subito trasformazioni radicali rispetto ai propri lineamenti originari e fondativi, non può farne a meno.
Così è significativa la storia del Dandi Memorial, un luogo progettato per dare spazio non solo alla ricostruzione storica di quell’evento, ma anche per connetterlo a una dimensione e a una funzione di educazione civica nel tempo presente – ovvero una coerente e documentata operazione di public history. Bene, ma questo progetto sostenuto anche dal governo non riesce ormai da anni a passare alla fase di realizzazione.
Non è un problema di mancanza di fondi, o di urgenze che ridisegnano gerarchie di importanza o scale di priorità.
Nei fatti l’opinione dominante oggi in India di quel simbolo che non esalta il nazionalismo, non rivendica un ruolo di primato nel mondo, ma propone un processo di costruzione e di coabitazione a partire da una dimensione multivocale dell’India reale, non sa semplicemente e letteralmente cosa farsene.
Quella scena è lontana dal sentimento collettivo, dai fondamenti su cui si costruisce identità nazionale nell’India di oggi, un processo che non è recente, ma di almeno trenta anni.
L’ha illustrato, con intelligenza e senza trasformarlo in un canone ideologico, Amartya Sen alla fine degli anni ’90 con Laicismo indiano, in cui espone alcune sue riflessioni volte a proporre una lettura non irenica della realtà indiana.
Nel testo Sen mette fuori gioco una serie di luoghi comuni, come quello della presunta predisposizione al dispotismo delle culture asiatiche. Poi insiste sulla natura del processo di involuzione in corso in India, sospeso tra il tradizionalismo e il comunitarismo. In particolare sottolinea il rischio di una revisione in senso confessionale della costituzione.
Ma sottolinea anche i deficit culturali, politici e programmatici del laicismo che dimostra la sua crisi proprio perché si limita a un’equidistanza “negativa” dello stato dalle diverse fedi religiose. Questo è un nuovo aspetto che allora poteva sembrare limitato al mondo degli ex-colonizzati e che oggi invece attraversa profondamente e trasversalmente tutto il mondo occidentale.
L’effetto alla fine è il ritorno della politica nelle braccia della religione.
Vladimir Putin, Benjamin Nethanyahu o Recep Tayyip Erdoğan sono gli esempi più eclatanti di questa dinamica che sbaglieremmo a considerare proprio di realtà marginali o eccezionali.
Quel processo rappresenta forse (o almeno non sarebbe sbagliato valutare quanto lo sia) la regola con cui si dà forma la crisi della politica oggi, anno 2023.
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