Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 1956 nella sala del Palazzo Grande del Cremlino Nikita Sergeevič Chruščëv legge il Rapporto segreto, il testo che costituisce una vera e propria denuncia dello stalinismo e che spiega come si fosse diffuso nell’URSS il culto della personalità e quali conseguenze avesse avuto.
È significativa la sceneggiatura in cui Chruščëv legge il Rapporto segreto, ovvero a conclusione della seduta dei lavori del XX Congresso del Pcus (tra il 14 e il 26 febbraio 1956). È un’occasione che per molti aspetti è costruita come un momento di autocoscienza, a cui assistono, oltre ai 1600 delegati del partito russo, anche i dirigenti più prestigiosi dei partiti comunisti stranieri ospiti al congresso.
Altro aspetto significativo è che quel testo, per decisione di Chruščëv, non sarebbe dovuto diventare pubblico, anche se viene letto in altre occasioni dopo quella nottata.
Lo diventa (e dunque la discussione è ineludibile, o comunque non controllabile) alcuni mesi dopo, quando il New York Times pubblica la versione integrale del testo il 4 giugno 1956, seguito poi a ruota da Le Monde (il 6 giugno) e da The Observer (il 10 giugno).
Dunque si potrebbe dire che la lettura nella notte tra il 24 e il 25 febbraio corrisponda a un rito, finalizzato non a sollecitare la discussione pubblica sui suoi contenuti, ma a garantire la fedeltà.
Quando Chruščëv legge il Rapporto segreto una parte dello scontro e del confronto che saranno al centro della discussione pubblica è già in corso: il testo del rapporto è da settimane il tema di discussione all’interno del Pcus.
Una parte di quei temi è già stata esposta in una riunione del Presidium del partito il 1° febbraio 1956. Il confronto delinea già lo scenario che poi inizierà a essere pubblico a partire da maggio e poi con la pubblicazione del testo sul New York Times. Lo scontro all’interno del Presidium è tra il ministro degli Esteri Molotov, che esprime la difesa più risoluta dell’operato di Stalin, e Anastas Mikojan, il più acceso sostenitore della destalinizzazione. Molotov chiede che quel tema non sia esposto né venga presentato al congresso.
Una settimana dopo, il 9 febbraio, si riapre la discussione e questa volta il problema non è più se il tema sia da affrontare o meno, ma in che forma vada posto il problema e in quale momento dei lavori congressuali sia meglio esporlo. Su suggerimento di Chruščëv si decide che l’occasione migliore sia la sessione riservata del congresso, quella in cui non sono presenti rappresentanti di delegazioni estere.
In quel testo non è ancora chiaro l’asse temporale in cui collocare il tema del giudizio su Stalin. Da qui discende, infatti, l’ampiezza e l’estensione dell’analisi critica, ovvero ciò che si condanna, ciò che si critica, ciò che si salva.
La prima questione riguarda il tempo.
Nella preoccupazione politica di Chruščëv il problema del tempo è collegato al tema della possibile salvezza del sistema. Per cui contemporaneamente occorre personalizzare la responsabilità e trovare quel fondamento culturale e anche teorico che consenta di proporre una continuità, di svolgere il ruolo di antidoto, con l’intenzione di dimostrare che gli “anticorpi” si trovano all’interno del sistema stesso che si sta denunciando.
La pubblicazione e il largo commento che Chruščëv dedica alla Lettera al Congresso di Lenin svolgono questa funzione. Il testo, più noto come il suo Testamento, è steso da Lenin tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, consapevole ormai della sua morte prossima, e per Chruščëv è un modo per circoscrivere lo stalinismo all’interno della storia del movimento bolscevico.
Il documento denuncia la «pericolosità di una guida individuale», insistendo su una «guida politica collegiale» del partito come una delle questioni urgenti nel passaggio di potere, e alludendo alla possibilità dell’autoriforma dell’esperimento bolscevico.
Questo aspetto è parte del contenuto ideologico del Rapporto segreto. Infatti il senso e la natura politica dell’operazione proposta da Chruščëv devono allo stesso tempo sollecitare un cambiamento, ma anche trattenerlo, perché il processo di destalinizzazione, per quanto radicale nelle intenzioni, non può giungere alle estreme conseguenze. L’effetto, infatti, sarebbe il sovvertimento irreparabile di un sistema.
È proprio questo l’esito che si vuole evitare con l’operazione politica rappresentata dalla lettura del Rapporto segreto.
La seconda questione è la scelta della data o dell’evento da indicare come momento di passaggio.
Per Chruščëv anno chiave è il 1934, data significativa sia per ciò che esclude, sia per ciò che include.
Chruščëv, infatti, non considera né la lunga lotta all’interno del Pcus, che conduce prima alla marginalizzazione e poi all’espulsione dell’opposizione di sinistra, né la messa sotto silenzio dell’opposizione della destra. Da una parte quindi esclude tutte le personalità politiche intorno alla figura di Trockij, dall’altra tutto il gruppo politico che nel corso degli anni ’20 pensa la riforma economica e guarda con interesse al mondo contadino, ovvero l’area Buchkarin.
Dunque ciò che Chruščëv tralascia dalla sua critica è sia la logica economica, sia quella sociale con cui l’Urss avvia il processo di industrializzazione forzata con il Primo piano quinquennale (1929-1933) e soprattutto la prima grande ondata di repressione sociale che colpisce il mondo contadino russo tra 1932 e 1933 (e in particolare la carestia in Ucraina).
Il momento cruciale è per Chruščëv la reazione all’assassinio del 1° dicembre 1934 di Sergej Mironovič Kirov, Segretario del Comitato regionale di Leningrado, una delle figure più vicine a Stalin, ma anche da lui considerato come un temibile concorrente, come ha sottolineato lo storico Giuliani Procacci.
La reazione che ne segue e che avvia la fase delle grandi purghe e dei tre grandi processi ai dirigenti storici del bolscevismo (Zinov’ev e Kamenev nell’agosto 1936; Piatakov e Radek nel gennaio 1937; Buckharin, Rykov, Yagoda, Rakovski nel marzo 1938) è indicata come l’inizio di quella crisi che si sarebbe poi accentuata con il crollo militare del 1941 in seguito alla repressione di massa che iniziata nel 1937 e che coinvolge tra gli altri i quadri alti e medi dell’esercito. Da lì si origina, afferma Chruščëv, «l’autoritarismo di Stalin verso il partito e il Comitato Centrale».
Chruščëv legge questa trasformazione confrontando i dati della repressione tra la realtà del partito al XVII Congresso (tra il 26 gennaio e il 10 febbraio 1934) e la situazione con cui si presenta al congresso successivo (nel marzo del 1939): un partito distrutto e un paese incapace di difendersi.
È un dato su cui Chruščëv insiste, perché uno egli obiettivi politici del Rapporto segreto è dimostrare il carattere «antinazionale», e dunque distruttivo e miope, di una politica repressiva che invece voleva comunicare il dato opposto, ossia la «forza crescente del paese».
Il passaggio è significativo per un duplice motivo.
Da una parte perché ciò che Chruščëv propone è investire su un dato di appartenenza nazionale e dunque di comunità. Dall’altra presenta come espressione della cultura e delle preoccupazioni politiche del partito il tema dell’orgoglio nazionale.
Il problema cui Chruščëv deve cercare di dare una soluzione consiste in altre parole nell’ottenere la fiducia dei propri concittadini e nel far rinascere in essi fiducia per il partito e per il sistema socialista. E questo può avvenire anche in forza della costruzione scenica della lettura del Rapporto, che ha veicolato l’idea di intraprendere un percorso comune per uscirne insieme.
Quell’atto, per la sua segretezza, per come è collocato nell’ordine dei lavori congressuali, indica molte cose anche in relazione ai temi proposti in apertura del congresso:
Lungo questo percorso si collocano sia la riflessione del Pci nei mesi che precedono la pubblicazione del Rapporto segreto, sia le reazioni immediate alla pubblicazione.
L’eccezione è rappresentata da Umberto Terracini, che esprime perplessità più che sulla segretezza del testo sull’immobilità del partito e sulla sua vita interna. Il rischio più significativo per lui è l’inesistenza di una discussione e di un confronto politico vero.
Questi sono temi che anticipano le discussioni e le questioni prima intorno ai fatti della Polonia del luglio del 1956, e poi, più drammaticamente nei giorni a cavallo tra ottobre e novembre dello stesso anno, intorno alla questione dell’Ungheria, con l’invasione e la repressione da parte dell’ esercito sovietico del processo democratico del paese, che ripropone il problema della deformabilità reale del comunismo, evidenziando il limite di quella possibilità di nuova fase che il Rapporto segreto sembrava indicare o, perlomeno, a cui sembrava alludere.
La conseguenza dei fatti di Ungheria conferma la scarsa fondatezza di ciò che il Rapporto segreto aveva lasciato credere.
Il senso della crisi politica nella sinistra italiana nel corso del 1956 è stato più volte rintracciato nel confronto tra Pci e Psi, nel definitivo addio che si consuma tra due alleati che pur con molte perplessità hanno insieme condiviso un percorso a partire dalla Resistenza e poi si sono lentamente divisi, anche vivendo ciascuno, internamente, difficoltà, spaccature, dimissioni e abbandoni.
Tuttavia il senso della discussione intorno ai contenuti proposti dal Rapporto segreto non è solo la dimensione del conflitto interno tra le due forze maggiori della sinistra italiana. Quel confronto, infatti, riapre una discussione almeno su due questioni.
Da una parte una riflessione sul percorso storico fondato sulla conoscenza di dati reali, più che su un giudizio politico, che da solo potrebbe apparire una presa di posizione di principio, andando oltre un’analisi impressionistica.
Dall’altra un confronto su che cosa debba intendersi per sinistra, nella convinzione che sia all’ordine del giorno la necessità di pensare una nuova formazione politica, soprattutto un’innovativa idea di politica. A ben vedere è una fisionomia la cui ombra spesso non risolta si allunga fino al nostro tempo presente.
A un mese di distanza dalla lettura del Rapporto segreto Pietro Nenni interviene su Mondoperaio, auspicando un lavoro di scavo storico.
Gli risponde velocemente Franco Venturi convenendo sulla questione, ovvero la necessità, perché si produca un giudizio storico, «di conoscere, di elencare, di appurare i fatti». Per questo, aggiunge:
Se i sovietici ci forniscono finalmente qualche fatto nudo e crudo sull’epoca di Stalin, dobbiamo ringraziarli e anzi affrettarci a chiedere che ce li forniscano tutti, integralmente e senza ritardo
Franco Venturi interviene anche sul problema fondamentale da discutere sollevato dai temi del Rapporto segreto – che al momento in cui scrivono Nenni e Venturi non è ancora pubblico e dunque riflettono su indiscrezioni, anticipazioni, ma non sul testo. Venturi afferma:
«Non è quello dei processi di Mosca e degli uomini politici che vi furono eliminati» ma «l’eliminazione di tutta una classe dirigente, politica, tecnica ed intellettuale, di tutta una intelligencija e non soltanto di alcuni capi politici, ridotti spesso allo stato di ombre del passato. Quel che avvenne in Russia tra il 1934 e il 1939 non somiglia a quel che avvenne a Parigi tra il 1792 e il 1794 o, se si preferisce, tra il 1792 e il 1799. È ben più complesso e difficile da capire e, per far luce necessaria, bisogna innanzi tutto che i sovietici ci forniscano i dati».
Il rischio che intravede Venturi è rappresentato da una discussione che si focalizzi sul «culto della personalità» e non sulla formazione di una cultura politica.
Il tema è la fondazione di una nuova proposta politica che veda impegnati gli intellettuali come promotori, sostenitori, costruttori di un impianto politico-culturale rinnovato, che recuperi la critica al carattere totalitario di quell’esperienza, tema che era già al centro della sua riflessione nel suo Socialismo di oggi e di domani del 1943.
La questione dunque è che cosa significhi ripensare una proposta politica d’ispirazione socialista dopo l’esperienza del conflitto tra socialdemocrazia e comunismo negli anni tra le due guerre, e dopo l’epilogo che, per quanto descritto parzialmente, con molte reticenze, comunque è stato espresso nel Rapporto segreto. Scrive Venturi:
«Più che l’atto rivoluzionario, quel che conta nella vita del socialismo moderno, quel che la rivoluzione russa deve dirci oggi sono gli sforzi, le difficoltà, le contraddizioni e le forze della «costruzione» del socialismo in Urss. Non tanto al ’17 insurrezionale dobbiamo volgere lo sguardo, lasciandoci inebriare dal mito della rivoluzione riuscita, quanto agli anni lunghi, faticosi, che hanno seguito l’ottobre rosso e che hanno portato la Russia alla vittoria attuale.»
A commento e a chiusura di questo punto Venturi prosegue:
Il socialismo russo non ci insegna la via di una libertà che rinasca dai problemi del socialismo, ma ci insegna quali siano le contraddizioni interne del socialismo che non possono non sboccare sul piano della libertà stessa
La sensazione è dunque che se la riapertura del processo rivoluzionario è possibile, non sarà dentro gli schemi originari. E contemporaneamente non sarà la ripresa automatica di un percorso, in precedenza interrotto. Il problema è come proseguirà, eventualmente, quel processo, se avrà gambe solide per camminare, se esprimerà intelligenza e inquietudine.
Questi erano gli auspici, ma non la realtà dei fatti. Tutto dipendeva dagli uomini e dalla volontà, non dalle dichiarazioni di principio o dall’idea che la realtà era degenerata e che sarebbe stato sufficiente ricondurla nei suoi binari originari.
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