Martedì 17 maggio
Qualcosa deve essere successo, ieri, a Mariupol, ma per lungo tempo non sapremo cosa.
Immagini brevi, un pullman nella notte con la Z sulla fiancata, qualche volto disfatto dietro i finestrini; ma anche il simbolo della Croce Rossa.
Poi la notizia ufficiale data da Zelensky: "i combattimenti a Mariupol sono terminati, 256 soldati dell’esercito ucraino, tra cui 53 feriti gravi, sono stati evacuati al termine di un’operazione lunga e complessa. Gli eroi ci servono vivi”. Nessun comunicato invece da parte russa, che aveva fatto della cattura e della punizione dei “nazisti del battaglione Azov” asserragliati da 82 giorni nell’acciaieria più grande d’Europa, l’arma principale della sua propaganda.
Che ne sarà di loro non si sa, ma – se si capiscono le parole di Zelensky, che non parla certo a vanvera – i 256 non sono stati consegnati ai russi e sono sotto una sorta di tutela internazionale. Non dovrebbero essere deportati, non sono destinati a sparire. Non dovrebbe esserci il rischio che siano uccisi “come cani”, come era stato promesso dal generale ceceno arrivato apposta per loro a Mariupol. Si parla di uno scambio di prigionieri, che appare essere importante, visto il numero delle persone da scambiare; sono circolate nelle settimane scorse voci di ogni genere sull’identità degli evacuati, e resta piuttosto vaga la sorte della città di Mariupol, la candidata ad ospitare Eurovision l’anno prossimo.
Semplicemente non sappiamo, ma… È la prima volta dall’inizio di una invasione brutale che quel pullman nella notte mostra che esiste un qualche spiraglio di diplomazia.
E questo è il succo di quello che è successo. Di sicuro questa storia non è destinata a finire presto.
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