Ho visto scintille schizzar via
quando due sassi sono strofinati,
forse là dentro non fa così buio;
forse c’è una luna che brilla
da chissà dove, spuntando magari dietro un colle
un chiarore appena sufficiente a decifrare
quelle strane scritte, mappe stellari
sui muri interiori
Aveva 84 anni, Simic, quando ieri ci ha lasciato, e una carriera e una vita alle spalle che erano già di per sé opere letterarie. Di origine serba ma emigrato e naturalizzato negli Stati Uniti, ha scritto oltre sessanta libri tra prosa, poesia – minimalista – e saggi. Una produzione maestosa che attingeva da una sensibilità e un passato non alla portata di tutti.
Charles Simic nasce, infatti, a Belgrado nell’ex Jugoslavia il 9 maggio 1938, in un’Europa lacerata dalla Seconda guerra mondiale. La guerra, nonostante la giovanissima età, influenzerà l’intera sua visione del mondo. Nel 1954, quando Charles ha 16 anni, emigra negli Stati Uniti dove il padre si è trasferito da qualche anno. Inizialmente vive a Chicago, dove svolge qualsiasi tipo di lavoro per guadagnarsi da vivere. Nel 1961 presta il servizio militare nell’esercito degli Stati Uniti d’America.
Si innamora dei poeti latinoamericani, Neruda e Vallejo. Frequenta l’università e inizia a pubblicare le prime poesie, e alla scrittura in versi affianca quella di saggista e critico. La sua fama inizia negli anni settanta quando si fa conoscere come scrittore minimalista con delle poesie alla William Blake. È autore anche di diversi testi di filosofia, di arte e di musica jazz. Si occupa di poesia come redattore del “The New York Times Books”.
Tra i numerosi riconoscimenti, nel 1990 riceve il Premio Pulizer per la poesia con l’opera The World Doesn’t End, e nel 2000 viene eletto chancellor dell’Accademia dei Poeti Americani. Nel 2007 riceve un premio dall’Academy of American Poets.
Ma il suo lascito non si riduce a una lista di vittorie e di successi letterari, perché Charles Simic è stato un poeta che ha cercato sempre di mettersi anche dalla parte degli ultimi: la sua scrittura, così asciutta, così icastica, salvaguardava quell’individualità propria di ciascuno, che è poi garante della libertà. Nelle cose minime e nelle esistenze più fragili ricercava la bellezza, e la trovava, per metterla in mostra, lui che aveva conosciuto la bruttura della guerra e della storia.
Mark Strand ha scritto:
Le poesie di Charles Simic rivelano con chiarezza essenziale il profilo e le caratteristiche di un mondo che inventiamo in segreto, che segna le nostre vite nel momento della loro massima intensità, e che noi troppo spesso neghiamo perché è più reale di qualsiasi altra cosa a noi nota. La sua opera è pervasa dal senso che le immagini precedono gli oggetti, che il mondo è una creazione della favola, che nulla equivale a ciò che pensavamo che fosse, ma che in qualche modo sospettavamo potesse essere.
Lo ricordiamo con questa sua poesia:
Un secolo di nuvole che si addensano. Navi fantasma che attraccano e salpano. Il mare più fondo, più vasto. Il pappagallo nella gabbia di bambù parlava diverse lingue. Il capitano del dagherrotipo aveva le guance tinte di rosso. Dai tropici aveva riportato una ragazza seminuda che tenevano incatenata in soffitta ancora dopo che era morto. La sera lei emetteva suoni che sarebbero potuti essere un canto. Il capitano raccontava di una razza d’uomini senza bocca che si sostentavano solo con il profumo dei fiori. La storia indusse moglie e madre a recitare una preghiera per la salvezza di tutte le anime non battezzate. Una volta, però, sorprendemmo il capitano che si toglieva la barba. Era finta! Sotto la prima ne aveva un’altra, dall’aspetto altrettanto assurdo.
Era l’epoca degli sfollati matronei sul lungomare. Le lingue morte dell’amore erano ancora in uso, ma anche tanto silenzio, tanto urlare muto con quanto fiato si aveva in corpo.
Di
| Adelphi, 2012Di
| Adelphi, 2008Di
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