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Palmiro Togliatti: dal rivoluzionario all’uomo di governo  

Immagine tratta dal libro "La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano 1923-24. Pensiero e azione socialista , di Palmiro Togliatti, Pgreco, 2021"

Immagine tratta dal libro "La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano 1923-24. Pensiero e azione socialista , di Palmiro Togliatti, Pgreco, 2021"

Quando, nel 1972, Renato Guttuso dipinge I funerali di Palmiro Togliatti nella tela, tra la folla inserisce molti volti ideali. Per esempio Lenin (raffigurato più volte), Stalin, Picasso, Neruda, Elio Vittorini, Enrico Berlinguer, Angela Davis, Nilde Iotti, Antonio Gramsci, Leonid Breznev, Dolores Ibarruri, Anna Kuliscioff, Jean-Paul Sartre.

In quell’omaggio al proprio ’900 ci sono le molte sfaccettature di una biografia inquieta – al di là dell’apparente postura del corpo controllata. Forse conviene partire da qui se si vuol provare a orientarsi con una tra le personalità più discusse dell’esperienza comunista italiana, nell’anniversario della sua nascita (era il 26 marzo 1893).

Immagine tratta dal libro "Togliatti, di Giorgio Bocca, Feltrinelli, 2021"

Palmiro Togliatti è figlio di un impiegato pubblico, con una storia scolastica che potrebbe raccontare qual era la vita, allora, degli impiegati: nasce a Genova, fa le scuole elementari a Novara e poi a Torino, il ginnasio a Sondrio e il liceo a Sassari. Poi concorre per una borsa di studio del Collegio San Carlo, che vince e gli consente di iscriversi a giurisprudenza (novembre 1911). Si laurea quattro anni dopo, nel novembre del ’15, con una tesi in economia politica, distinguendosi tra i primi nove studenti italiani nella disciplina.

Non è un dettaglio. Se a circa sessant’anni dalla morte (avvenuta il 21 agosto 1964) l’immagine è quella del politico di professione, forse non è marginale ricordare che accanto gli preesiste e rimane strutturale nel tempo anche uno spessore di studioso che è sbagliato trascurare.

Togliatti
Togliatti Di Giorgio Bocca;

Sono passati cinquant'anni dalla sua morte e di Togliatti è sopravvissuta forse un'immagine di uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, un intellettuale avaro nei sentimenti, un politico scaltro e cinico, troppo filosovietico e ortodosso per ispirare o appassionare.

Sopravvisse a molte stagioni e a molte svolte, e i segni di queste si vedono bene in ogni raffigurazione che possiamo fare di Togliatti: uomo che, per questi continui cambiamenti, prova profonda inquietudine.

Possiamo individuare due macroaree, delle svolte di cui sopra.

La prima è quella del non aver niente alle spalle (che lo accompagna nel suo lungo soggiorno a Mosca tra il 1926 e la Seconda guerra mondiale), e dunque la possibilità di ritagliarsi margini di autonomia in una struttura e in un rapporto con « Il Capo», ovvero Stalin, che non ne lasciano e in cui si è soggetti ad alti e bassi dove il rischio dell’abisso è sempre molto vicino (l’ultima volta accade nel 1951, quando si profila l’ipotesi che intelligentemente lo accredita a guidare da Mosca il Cominform, una struttura di coordinamento dei partiti comunisti sul viale del tramonto, che ha lo scopo di mettere in mano il Pci ad amici di Stalin con meno personalità, più docili e meglio manovrabili. Togliatti riesce a sventare questa intromissione, inducendo il capo del governo russo a ripensare la necessità di aprire la strada a una nuova generazione di quadri dirigenti del partito che, nei fatti, sarà il Pci tra 1964 e primi anni ’80).

La seconda categoria è invece quella delle uscite apparentemente clamorose e controcorrente rispetto al «senso comune» del partito. Per esempio il voto per l’inclusione del concordato Stato-Chiesa nel testo della Costituzione italiana (articolo 7), o la firma per l’amnistia con cui, il 22 giugno 1946, Togliatti guardasigilli, ovvero ministro per la Giustizia nel primo governo presieduto da Alcide De Gasperi (10 dicembre 1945-14 luglio 1946), rende liberi moltissimi quadri fascisti, uomini e apparati dello Stato formati e devoti al regime (Repubblica sociale italiana, ossia Salò, inclusa).

In mezzo ce ne sono altre dove l’imbarazzo e l’incertezza si scontrano con la necessità di rompere il silenzio (un bivio che è sempre indicativo e significativo dello spessore di una figura politica che voglia essere pubblica e nazionale). Nel suo caso, esemplificative sono le parole che pronuncia per l’intervista del giugno 1956 al periodico Nuovi Argomenti sul senso e sulle conseguenze del rapporto segreto Chruščëv sullo stalinismo, o quelle fredde e impassibili in occasione della morte improvvisa di Giuseppe Di Vittorio (novembre 1957), che proprio sull’operato di Stalin e sull’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del patto di Varsavia (’56) aveva preso posizione di condanna.

Insieme ci sono altri gesti che in parte segnano delle fratture con la morale del partito e con le attese dei militanti: è la sua vicenda privata con Nilde Iotti (1920-1999), ovvero la sua rottura del matrimonio precedente con Rita Montagnana (1895-1979), o il suo appello perché la piazza si fermi dopo l’attentato del 14 luglio 1948 di cui rimane vittima.

Dunque, a ben guardare, siamo di fronte a un profilo che contemporaneamente sta dentro gli schemi, ma anche li scarta o li bypassa. Togliatti fa entrambe le cose. Per questo, come per altre figure della generazione dei fondatori del Pci, a cominciare dagli altri tre del settimanale L’Ordine Nuovo (Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini), fare i conti con la sua figura è alquanto problematico.

Voglio considerare rapidamente due esempi. Il primo riguarda le sue lettere, a lungo rimaste documento segreto, il secondo i suoi saggi di riflessione sulla storia italiana.

Comincio dal primo. A lungo molti hanno detto che quella di Togliatti sembrava una biografia e una vicenda senza archivi. Quando, nel 2014, Einaudi pubblica la prima selezione delle sue lettere, vediamo sovrapporsi però diversi piani: quello delle sue passioni culturali, delle sue relazioni personali, di quelle politiche, e del rapporto con i dirigenti interni del partito. Eppure a farla da padrone è il silenzio. Una scelta forse discutibile, ma certamente interessante, che consente di comprendere molti aspetti della sua personalità. Tuttavia, pochissimi se ne accorgono. Perché? Non credo perché i documenti improvvisamente siano diventati inessenziali.

Ci sono due dati interessanti in quel silenzio. Il primo riguarda un tratto mentale, prima ancora che politico, che ci tocca da vicino. Quel dato indica un aspetto profondo della modalità di discutere e riflettere sulla qualità della politica nel nostro Paese. In un’Italia il cui primo deficit è il vuoto politico, chiediamoci: perché è così difficile, o imbarazzante riflettere sulle persone che nascono e si formano come classe politica?

Il secondo è connesso al precedente, ma riguarda anche che immagine ci facciamo della politica stessa. Non è vero né che un politico è un uomo di una sola stagione, né che il tempo è un acceleratore che consuma in fretta chi si misura con la possibilità di fare e di decidere. È vero invece che in politica manca la pazienza, e dunque anche la capacità di pensare la cosa pubblica e di agirvi oltre il tempo. Il che non significa che, se perdenti, si costruisce un percorso per una nuova scalata al potere (Togliatti era consapevole che la sua sconfitta era anche quella di una generazione politica), ma vuol dire che, terminato un ciclo, si persevera come costruttori di una nuova classe dirigente.

Più specificamente. Vale per Togliatti, e non solo per lui, questo criterio: al centro sta la biografia. Questa si spiega poi intrecciando tra loro molti altri elementi, anche apparentemente lontani, ma in realtà strettamente connessi ed essenziali per comprendere gli attori che si muovono sulla scena. In altre parole, è la dimensione “laica” di una ricerca. Scrivo “laica” perché Togliatti non appare ancora un personaggio consegnato alla storia, ma parte di un confronto politico da cui sarebbe invece opportuno scioglierlo.

Per questo la pubblicazione, per la prima volta, di una selezione, certamente riduttiva, ma non di meno significativa, di sue lettere conferma questa linea. La guerra di posizione in Italia è il primo tassello di un possibile percorso documentario che propone una diversa prospettiva intorno alla sua figura. Come tale, essa fornisce elementi per riprendere un lavoro di ricerca sui suoi scritti. Qui mi limito a considerare alcune di quelle lettere per indicare alcuni temi di approfondimento possibile.

Illustrazione tratta da "La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964" di Palmiro Togliatti, Einaudi 2014

È significativo l’apparato lessicale della lettera che Togliatti scrive ad Ambrogio Donini nel dicembre 1954 (il tema è lo studio del movimento operaio in relazione alla funzione politica e culturale del Pci), quando sostiene che il modo più utile per penetrare all’interno del mondo culturale consiste nel presentarsi agli studiosi senza spocchia. Ovvero, precisa, «come uomini che li giudicano stando al di fuori del loro lavoro, di cui dimostriamo di non avere nemmeno una nozione precisa». Pur consapevoli di due aspetti: da una parte che non ci fosse un prontuario dato, ma che «In ogni paese il marxismo deve sapersi battere sul terreno della cultura nazionale, delle sue tradizioni, del suo modo di essere e svilupparsi, se vuole diventare elemento attivo e determinante di questo sviluppo»; dall’altra che era necessario studiare, capire il senso della storia futura e quello tragico della crisi del Novecento. È un indizio che forse è significativo per comprendere lo spirito con cui Togliatti si interroga politicamente sulla storia d’Italia.

C’è una famosa lettera di Benedetto Croce a Togliatti del dicembre 1945 da cui forse conviene prendere le mosse. In quella lettera, tra l’altro, scrive Croce: «Frivolo sarò bene in questo senso che io ripugno a diventare un totus politicus come (e non la invidio, perché talvolta penso che debba soffrirne) è Lei in ogni suo gesto e parola».

La lettera definisce in qualche modo una condizione di rapporti che è anche una dimensione della politica che in Italia inizia a prendere corpo con l’avvento della repubblica. Una condizione in cui il politico di professione esercita la propria funzione e il proprio ruolo oltre la dimensione del “notabile” o dell’intellettuale prestato a quel mondo.

Non credo che ci fosse né dell’ironia, né del rammarico nelle parole di Croce rispetto alla figura di Togliatti, di cui il filosofo aveva compreso lo spessore nei giorni della crisi del marzo 1944, poi illustrata compiutamente con il rapporto che tiene l’11 aprile dello stesso anno ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana.

Il ritratto di Togliatti solo come totus politicus mi sembra limitato. La vocazione allo studio ha una rilevanza che deve essere presa in carico se se ne vogliono considerare la complessità e le contraddizioni. Un esempio significativo è nel saggio sulle classi popolari nel Risorgimento italiano, che si apre con una riflessione sull’interesse che un politico deve avere per la storia e su quale fondamento abbia per lui misurarsi con essa. Ciò in relazione a una proposta che tenga conto degli attori e delle tradizioni culturali che caratterizzano i soggetti con cui si intende dialogare e confrontarsi.

Il corpo di quelle lettere è utile per definire il profilo culturale di Togliatti e per misurare analogie e differenze rispetto a Gramsci. Almeno su due temi si distinguono nettamente: il giudizio sulla figura di Giovanni Giolitti e la riflessione sul tema della Chiesa nella storia e nella società italiana. È un doppio problema che ha la sua formulazione culturale e politica nelle note che Togliatti stende sulla figura di Alcide De Gasperi a un anno dalla sua scomparsa.

Se il riferimento a Giolitti ha una funzione anche polemica e strumentale, resta degno di nota perché indica una differenza e una distanza, che Togliatti matura rispetto a Gramsci, per il quale Giolitti è la figura dell’Italia immobile e del politico immorale.

La stessa distanza emerge anche rispetto alla questione cattolica, questione che acquisterà forza nella sinistra italiana in merito all’articolo 7, ma che già nel 1929 differenzia Togliatti da gran parte della riflessione politica dell’antifascismo italiano a proposito della valutazione del Concordato.

Togliatti insiste su un punto: il Concordato non è la vittoria dell’antirisorgimento, ma la ricomposizione della frattura che aveva impedito lo sviluppo di una rivoluzione liberale, che in Italia non aveva mai registrato un’adesione di massa.

Assenza quasi completa di una adesione di masse lavoratrici ai gruppi di aristocrazia liberale e di borghesia che furono i protagonisti del Risorgimento, e, dall’altro lato, di una profonda separazione esistente in seno alle classi dirigenti italiane. Per la concorrenza di questi due fatti il processo della rivoluzione democratico-borghese assunse, in Italia, una forma originale, e la rivoluzione liberale italiana fu qualcosa di sempre incompleto, di contorto, rachitico, privo di slanci, di entusiasmo e di larghe vedute.

Lo scritto citato sottolinea come la “questione romana” non sia mai stata solo un fatto di potere temporale da restaurare, ma piuttosto la rivendicazione a rappresentare in altra forma, rispetto al nascente movimento operaio, la protesta sociale delle classi subalterne. Inoltre evidenzia come la Chiesa rientri con forza nella cosa pubblica rappresentando una garanzia per il potere, mentre lo Stato, a parte l’aspetto simbolico di non aver ceduto sulla questione territoriale (ma questo, sottolinea Togliatti, era nel conto già dal 1871), ne esce perdente. O meglio: il vincitore è Mussolini come leader politico, non lo Stato moderno.

Oggi si inizia la liquidazione della ideologia nazionalista e fascista in senso proprio. Giovanni Gentile ha ragione di sentirsi a disagio. Lo spirito santo caccia dal nido lo spirito assoluto. Il prete avrà più prestigio, nelle scuole, del professore di filosofia idealistica

Illustrazione tratta da "L'amnistia Togliatti. 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti" di Mimmo Franzinelli, Feltrinelli 2016

Sotto questo profilo, quindi, appare evidente che il fascismo non costituisce una “parentesi” nella storia d’Italia. Questo giudizio per Togliatti non valeva solo per la questione specifica dei rapporti Stato-Chiesa, la cui riflessione in merito non fu compresa per parecchio tempo, ma si può leggere anche nell’operazione che egli intraprende con la ricerca sulla formazione del gruppo dirigente del Pci tra Bordiga e Gramsci.

Quello studio fu inteso da molti come un’operazione volta a stabilire che il profilo del Pci si era definito con le Tesi di Lione e dunque il processo della sua formazione si era concluso nel 1926. In realtà il centro della partita per Togliatti è spostato più avanti, e il processo acquista un senso solo se si prende in considerazione l’elaborazione culturale e politica che arriva fino alle soglie della grande crisi e che per il Pci significa abbandono delle linee di riflessione politica avviate a Lione, ma ripresa di quelle sistematizzate nei primi due anni di vita de Lo Stato operaio intorno al tema del capitalismo di Stato in Italia.

In quel processo merita un’attenzione particolare la lettura di Americanismo e fordismo di Gramsci, che illumina la visione del fascismo come «rivoluzione passiva», su cui Togliatti andava riflettendo negli anni ’50. Tema che verrà proposto solo nei primi anni ’70 come dirimente nell’analisi del fascismo. Riaprendo il dossier del carattere di massa del fascismo, la figura centrale con cui Togliatti riprende a confrontarsi, oltre a Gramsci, è Angelo Tasca.

Non c’era solo il problema delle fonti, anche se questo Togliatti ha pesato lungamente. C’era semmai un problema di completezza della ricostruzione storica, anche solo sulla base della documentazione disponibile, dove la parte essenziale è costituita dal materiale a stampa prodotto dal gruppo dirigente del Pci, Togliatti e Tasca in primo luogo.

Quella stagione aveva significato varie cose per il gruppo dirigente del Pci: analisi della storia del capitalismo italiano, indagine delle sue linee di sviluppo e delle sue metamorfosi, lettura attenta delle sue trasformazioni in atto.

Una stagione analoga si riapriva alla fine degli anni ’50 a proposito del modello di sviluppo italiano. Il problema, ovviamente, non era quello di ricalcare o riproporre gli stessi temi, ma di mostrare che cosa volesse dire produrre e proporre analisi del capitalismo italiano. Riaprire la questione del fascismo non era dunque solo riflettere sul passato o su una stagione chiusa della storia italiana. Il fascismo non era stato una “parentesi”. Era stato e aveva segnato una trasformazione.

C’era stato un tempo in cui quel tema aveva dato luogo a uno sforzo interpretativo e a una riflessione alta. In quel periodo, affrontare la questione del fascismo aveva significato impegnarsi nell’analisi dei processi di modernizzazione della società italiana, muovendo da preoccupazioni che coinvolgevano la riflessione economica, sociologica e filosofico-politica sulla natura e le trasformazioni dei regimi politici. Per una parte, il Pci l’aveva assorbita, poi l’aveva abbandonata. Si trattava di ritrovarla.

A ben vedere è il discorso di cui la sinistra attuale, considerata nel suo complesso, al netto del giudizio sulle vicende specifiche di quegli anni terribili, si trova ancora oggi a dovere riprendere il filo. Qui sta un tratto, forse inaspettato, ma ineludibile, della lezione politica e intellettuale di Palmiro Togliatti dirigente.

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