Presi uno stelo di paglia dal mio letto, il più duro che trovai, poi mi morsi una zampa e lo intinsi nel mio sangue. Funzionava, scriveva.
In principio c’è una faina che viene cacciata di casa perché è zoppa. E un anno dopo, giorno più giorno meno, il suo autore che vince uno dei premi più importanti del panorama letterario italiano: Bernardo Zannoni, con il suo romanzo d’esordio I miei stupidi intenti, si aggiudica la sessantesima edizione del Premio Campiello. È un trionfo piacevolmente inatteso, il suo. Al Gran Teatro La Fenice di Venezia, con i suoi capelli scarmigliati e lo sguardo commosso, il giovane Zannoni mostra orgoglioso la vera da pozzo simbolo del Premio.
«Ero talmente convinto che non avrei vinto, che non avevo nemmeno preparato il discorso», ma la vittoria è schiacciante, con 101 voti dei 300 dell’intera giuria. Nella cinquina finalista, I miei stupidi intenti competeva con Antonio Pascale e il suo La foglia di fico, Einaudi, arrivato al secondo posto, Elena Stancanelli con Il tuffatore, La nave di Teseo, Fabio Bacà con Nova, Adelphi, e Daniela Ranieri con Stradario aggiornato di tutti i miei baci, Ponte alle Grazie.
L’originalità del romanzo, del resto, saltava subito all’occhio. Il libro parla dell’educazione di una faina, in una sorta di favola – si legge sulla quarta di copertina – a metà tra «Camus e un film della Pixar». A chi lo paragona a un Esopo o a un Fedro, Zannoni stesso risponde che forse si avvicina a loro per il tema, che è il mondo animale, su questo non c’è dubbio, ma anche che ognuno scrive (o legge) per ritrovare «la propria natura in ciò che è al di fuori di noi, le piante e gli animali».
Cominciai a scrivere la mia storia […] sorpreso di quanto avessi vissuto, ancora incerto di come sarebbe andato a finire.
I miei stupidi intenti racconta della vita di Archy, una faina che vive con la madre e i fratelli nella foresta. Le loro giornate sono scandite dalla fame e dai tentativi di sopperirvi, in un clima sempre minaccioso e violento, finché Archy, goffamente, non cade da un albero e si azzoppa. Reso inutile, perché non può più cacciare, la madre lo manda dalla volpe Solomon, un vecchio usuraio verso cui tutti provano timore e rispetto. Qui le cose non sono semplici, per Archy, anche se, con il tempo, la volpe vedrà in questa faina disgraziata un guizzo d’intelligenza che lo spingerà a insegnarle il suo più grande segreto: leggere.
Inizia così, per la faina, un lungo percorso di educazione, che non porterà l’animale alla redenzione, tutt’altro: imparare a leggere e a scrivere come gli uomini porterà Archy a comprendere le tristi verità del mondo, tra cui la morte, la malattia, la paura. I miei stupidi intenti è una favola in cui nessun animale vorrebbe essere umanizzato, uno spaccato della condizione umana vista da fuori, da ciò che è del tutto altro da noi.
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