Alle volte
si può morire di niente.
O vivere di niente
Verso la metà degli anni sessanta, Roberto Roversi era uno degli autori più richiesti dalle case editrici. Si contendevano la sua penna e la sua voce Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, grandi nomi che volevano pubblicare grande letteratura. Del resto, Roversi aveva cominciato così presto a scrivere poesie che a quarant’anni era già entrato, si può dire, nel canone: il suo primo componimento risaliva al 1939, all’inizio della guerra, e si intitolava Cavalleria polacca. A sedici anni aveva già a cuore qualcosa – ancora non ben definito, magari, ma sentiva che la letteratura aveva a che fare con la vita, doveva averci a che fare.
Verso la metà degli anni sessanta, si diceva, tutti volevano Roversi: una raccolta di poesie, un pezzo teatrale, un romanzo, un articolo. Perché si destreggiava bene in tutto, lui. Rientrava nelle schiere dei poeti, ma anche dei critici – era un critico feroce, anche verso i suoi amici –, e poi degli autori di prosa. La sua scrittura non è mai stata neutra, però. Aveva avuto come compagni, al liceo, Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti e con loro aveva fondato la rivista Officina. Erano tre personaggi caustici, cui non andava giù la realtà così com’era, per niente, e infatti la rivista chiuse presto: troppo diretta, redattori troppo arrabbiati. Come diceva lo stesso Roversi, «non avevamo fatto ben bene i conti». Ma lo spirito rimase.
Non era ribelle, anche se si trovò ad abbracciare tutte le ribellioni che attraversarono la storia del Novecento. Prese parte alla Resistenza, poi con il ’68 le idee che circolavano lui le aveva già ben espresse anni addietro, e infine, mentre tutti gli editori maggiori lo volevano, decise di non pubblicare più. O meglio, di non farlo con loro, perché si era reso conto che la comunicazione e la cultura si stavano accumulando nelle mani di pochi, e a lui questo non piaceva per niente. Perciò, verso la metà degli anni sessanta, si diceva, tagliò i rapporti con i grandi editori e decise di distribuire i suoi scritti – su fogli fotocopiati, carta di poco conto – nella sua libreria. Forse non era ribelle, ma sicuramente stava compiendo una rivoluzione.
Sì, perché, insieme a Elena Marcone, sua moglie, nel ’48 aveva aperto la libreria Palmaverde a Bologna, dov’era nato, dove aveva studiato e dove avrebbe vissuto sempre. Si guadagnò, nel tempo, la stima dei grandi nomi del Novecento, che oggi noi studiamo sui libri di letteratura, e che allora però stravedevano per Roversi: Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Elio Vittorini, Franco Fortini. A leggere le sue parole sembra talmente attuale da risultare incredibile il fatto che appartenga al secolo scorso. Vedeva, da sempre, che la società – che lentamente stava diventando quella dei consumi – schiacciava gli individui togliendo loro ogni libertà di movimento. Lo faceva senza che se ne accorgesse nessuno perché «anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e isterilisce – anche i propositi migliori».
La bellezza che metteva nei suoi testi la voleva vedere realizzata nel mondo. Ci provò con la poesia e con le canzoni, anche: scrisse per Lucio Dalla, che, disse una volta, se non avesse conosciuto Roversi avrebbe fatto l’idraulico. E gli album che hanno scritto insieme, sono eccezionali: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili. Talento poliedrico, quindi, sfuggente, come quello dei grandi intellettuali, ed etico, perché voleva cambiare almeno un pezzo di mondo.
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