Se ci piace troppo non va bene? Se ci sediamo in sala da concerto e ci abbandoniamo al godimento c’è qualcosa di sbagliato? Se un brano di musica classica ha un successo mondiale, insomma, ci dobbiamo insospettire?
Il dubbio ha tormentato per quasi un secolo i poveri ascoltatori di Rachmaninov, che da un lato erano felici di sprofondare nel languore del suo Secondo concerto per pianoforte e orchestra o nella sua Seconda sinfonia ma dall’altro venivano colpevolizzati dai critici musicali più autorevoli, da intellettuali che si ritenevano aggiornati, da musicisti che si proclamavano «impegnati». Ma come, dicevano con sdegno, il Novecento ha fatto fare un balzo alla storia della musica, ha prodotto Mahler e Schönberg, Stravinskij e Varèse (e poi Stokhausen, Boulez, Nono, Xenakis…) e voi ascoltate Rachmaninov? Un compositore che prosegue la vicenda del Romanticismo, infischiandosene delle avanguardie? Un pianista virtuoso che si scrive partiture pirotecniche per poi suonarle davanti a platee osannanti?
Non va bene, non va per niente bene: la musica classica ormai non deve accarezzare le orecchie, non può continuare a esprimere emozioni, a far battere forte il cuore; la musica classica adesso è «musica contemporanea», da apprezzare solo con il cervello, magari aiutati da una conferenza introduttiva, e non certo da ascoltare in santa pace come si era fatto per secoli. Così Rachmaninov, che aveva una sensibilità del tutto estranea alle rotture delle avanguardie novecentesche, ha dovuto aspettare molti decenni prima che la sua musica fosse serenamente accettata dai tutori della storia della musica – oggi lo si suona dovunque, ma trent’anni fa chi voleva proporlo veniva considerato un ignorante troppo sentimentale.
La cosa affascinante è che, mentre la visione «ortodossa» della storia lo teneva il più possibile lontano, Rachmaninov conquistava le platee di tutto il mondo. La sua partitura più celebre, il Secondo concerto per pianoforte e orchestra, del 1901, è ancora oggi uno dei brani di musica classica più amati di tutti i tempi – la stazione radio inglese Classic FM, che organizza un sondaggio annuale tra i suoi ascoltatori, se lo ritrova quasi sempre in testa alla classifica. E le sue melodie ampie, sinuose, sorrette da armonie ricchissime che distillano l’eredità del Romanticismo russo, sono davvero entrate nell’immaginario collettivo. Al punto che il tema di apertura del terzo movimento del Secondo concerto è stato trasformato tout court in una canzone: Full moon and empty arms, portata al successo da Frank Sinatra, vi appoggia sopra un testo, ma la musica è quella di Rachmaninov. Così come d’altronde la strofa di All by myself, scritta da Eric Carmen ma resa celebre da Céline Dion, è serenamente tratta dal secondo movimento (la trovate al clarinetto, dopo circa 1’20” dall’inizio).
Ora, la celebrità non è un valore assoluto dal quale far discendere la qualità di un brano, di un compositore. E non lo è il fatto che un pezzo possa essere trasformato in una canzone. Ma di certo non può valere il discorso contrario, per cui, se è celebre e amata, una partitura ha qualcosa che non va. Così, oggi che cadono i centocinquant’anni dalla nascita di Rachmaninov (il primo aprile 1873 a Semyonovo, Russia), è bello festeggiarlo godendosi i suoi brani più celebri, il virtuosistico Terzo concerto per pianoforte e orchestra (1909) – al quale è peraltro dedicato il film Shine – o la sinfonia corale Le campane (1913) o le Variazioni Paganini (1936): sarà un modo per accorgersi, una volta di più, che il Novecento è stato un secolo ricco di idee, estetiche, percorsi; e che ingabbiarlo nel pensiero unico delle avanguardie ostili alle orecchie, come è stato fatto a lungo, sarebbe un errore ormai imperdonabile.
Di
| L'Epos, 2006Di
| Ponte alle Grazie, 2020Di
| Marsilio, 2022Di
| Mondadori, 2018Di
| Rugginenti, 1996Ti potrebbero interessare
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