Ricordare l’anniversario della morte di Stalin, accaduta 70 anni fa, nei giorni in cui ci accorgiamo amaramente che è già trascorso un anno dall’aggressione russa all’Ucraina voluta da Putin, spinge quasi inevitabilmente a un confronto storico tra le due figure che più a lungo – almeno dalla rivoluzione del 1917 – hanno guidato il paese e controllato il potere: Stalin per quasi trent’anni e Putin per ventitré.
Su Stalin vale la pena ricordare che non sappiamo ancora con certezza di cosa sia morto: se cioè l’emorragia cerebrale che lo colpì il 1° marzo del 1953 (e a cui cedette solo la sera del 5 marzo dopo le 21) fosse frutto di ipertensione e arteriosclerosi o di un possibile avvelenamento (con un topicida, si disse) che l’avrebbe favorita o prodotta. La morte di Stalin, la cui agonia prolungata fu anche dovuta alla mancanza di medici nel Cremlino, per la lunga serie di arresti e fucilazioni che erano avvenute nei mesi precedenti perché si sospettava che i medici della dirigenza sovietica, in maggioranza ebrei, avessero complottato per uccidere i leader comunisti (il cosiddetto «complotto dei camici bianchi»), aprì rapidamente la strada a una lotta per il potere da cui emerse vincitore Nikita Chruscev e a soccombere per primo Berja – che pure aveva firmato l’amnistia che permise a migliaia di zek di uscire dal Gulag e tornare a casa – e poi gli antipartito Malenkov, Molotov, Bulganin e Vorosilov. Ma costrinse anche, per recuperare il consenso di una società sfinita dalla guerra e terrorizzata dalla repressione e dalle minacce di un nuovo periodo di «terrore», a prendere le distanze da Stalin e innescare quel processo di destalinizzazione che culminò nel 1956 con il XX congresso (quando a porte chiuse Chruscev denunciò in un «rapporto segreto» i crimini di Stalin e il culto della personalità che li avevano permessi) e nel 1961 con il XXII congresso che stabilì di rimuovere il corpo di Stalin dal mausoleo di Lenin nella Piazza Rossa.
È proprio negli anni di Putin, in questo XXI secolo, che la figura di Stalin, prima in modo quasi silenzioso e circoscritto, poi in forme sempre più aperte e ufficiali, ha conosciuto una riabilitazione che sembra inconcepibile per chiunque conosca, sia pure per sommi capi, le vicende dell’Urss nell’epoca staliniana, i milioni di morti per fucilazione, per fatica, freddo e fame nei campi del Gulag, per deportazione forzata, la tragedia sociale della guerra ai contadini attraverso la collettivizzazione forzata, le persecuzioni alle minoranze, l’accordo con Hitler nell’agosto del 1939 che gli dette via libera all’invasione della Polonia e all’inizio della seconda guerra mondiale.
È proprio nel ricordo di Stalin come condottiero e guida della Grande Guerra Patriottica, quella che si concluse con la sconfitta del nazismo il 9 maggio 1945, che Putin lo ha rimesso nel pantheon dei grandi russi, accanto a Pietro il Grande, a Caterina, ad Alessandro III e ai tanti generali che furono capaci di sconfiggere, in passato, le armate svedesi di Carlo XII, le armate di Napoleone e infine quelle hitleriane. Dimenticando non solo il patto con la Germania nazista (che permise all’Urss di conquistare metà Polonia e i paesi baltici) ma le stesse incertezze che resero nei primi mesi la difesa dell’Urss e favorirono l’occupazione tedesca e i massacri da cui furono accompagnati.
È stata la visione di Stalin di una grande Russia capace di ampliare i propri confini, di assumere una dinamica imperiale rendendola una delle grandi potenze mondiali che ha spinto Putin a mettere la sordina ai suoi «errori» (i massacri, il Gulag, le deportazioni) e a insistere soltanto sul suo ruolo eroico nella guerra, in una logica neoimperiale e neonazionalista che ha giustificato tutte le azioni militari e le aggressioni condotte in Cecenia, in Georgia, in Crimea e in Ucraina, prima nel 2014 e infine nel febbraio 2022 con la guerra di aggressione ancora in corso.
È nel giudizio su Stalin e nel grado di ricordo favorevole o contrario che la sua figura suscita che, a partire almeno dal 1956, si è potuto valutare il percorso della Russia (e prima dell’Urss) verso un parziale abbandono della sua struttura totalitaria e del suo atteggiamento imperialista, che ha trovato il suo momento più felice negli anni di Gorbačëv e nei primi anni di Eltsin, e che è tornato adesso in uno dei periodi più bui e pericolosi.
Di
| Rizzoli, 2023Di
| Mondadori, 2022Di
| Mondadori, 2017Di
| Carocci, 2015Di
| Bollati Boringhieri, 2017Di
| Corbaccio, 2023Di
| Feltrinelli, 2021Di
| Rubbettino, 2011Di
| Pgreco, 2017Di
| Adelphi, 2022Ti potrebbero interessare
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