Putin ha settant’anni; dicono di lui che sia l’uomo più pericoloso del mondo e che lo stesso suo popolo ormai abbia paura di lui.
Per il suo compleanno non ci sarà una Marylin Monroe che gli sussurra “Happy birthday, mr. President”, non ci saranno cerimonie, né fuochi artificiali, né bambine bionde con le treccine che si inchinano porgendo un mazzo di fiori.
No. Oggi i grandi della terra non mandano telegrammi, i soldati in trincea lo maledicono, così come i ragazzi richiamati alla leva e i servizi segreti di tutto il mondo si chiedono non se, ma quanto sia malato, non se, ma chi lo farà fuori. Tutti guardano la sua mano destra, quella che sembra muoversi senza il suo comando, come succede ai malati di Parkinson; sarà ferma quella mano quando avrà vicino il pulsante della bomba atomica? Ancora l’anno scorso, nessuno si aspettava che sarebbe finita così.
Ventuno anno anni fa, nessuno conosceva lo sconosciuto biondino che un Boris Eltsin ormai completamente disfatto nel fisico nominò suo successore.
Eltsin aveva concluso l’opera di commissario liquidatore del marxismo-leninismo, del socialismo, dell’economia pianificata per abbracciare il “mondo libero”; a sbrigare la pratica del fallimento chiamò come presidente ad interim un uomo senza passato di nome Vladimir Putin, scelto nella vasta selva degli impiegati del KGB ormai senza lavoro.
Quella che era stata la grande URSS ora era un paese in bancarotta, bisognoso addirittura di aiuti alimentari, in mano a bande di oligarchi e di mafiosi, e con i reduci dell’Armata Rossa scampati all’Afghanistan nelle strade a chiedere l’elemosina. L’America fu la prima a dare una mano e ad offrirsi come business partner.
Poi ci fu l’11 settembre, e non c’è da stupirsi se la prima solidarietà a George Bush venne proprio da Vladimir Putin; e nello stesso mese, il 25 settembre Putin fece la sua comparsa sul palcoscenico del mondo, il Bundestag di Berlino. E che show! Putin si espresse in perfetto tedesco, e con voce molto dolce, “mi rivolgo umilmente a voi nella lingua di Goethe, di Schiller e di Kant, per parlare di pace, di cooperazione, di fiducia reciproca”. Nessun russo l’aveva mai fatto, i due paesi erano nemici, l’avanzata dell’Armata Rossa nel 1945 non aveva lasciato buoni ricordi nelle famiglie tedesche.
Putin divenne presto un protagonista mondiale.
La Russia si aprì al mercato, alla Borsa, alla grande finanza, ai Mac Donald e all’american way of life. Il commercio delle materie prime, di cui la Russia disponeva in quantitativi ingenti, portò gli oligarchi ad ammassare enormi fortune, ad una condizione: tutti dovevano pagare la stecca allo zio Vlad, altrimenti c’era la vendetta.
La Russia crebbe così, in un ordinamento politico economico cui è stato dato il nome di “cleptocrazia”; la democrazia restava sulla carta, i dissidenti venivano uccisi, i ceceni rasi al suolo … ma per tutto il mondo libero era conveniente continuare a fare affari con Vladimir Putin.
Nel 2007, però, Putin diede al mondo un’altra immagine di sé.
Parlando ad un summit a Monaco sulla sicurezza internazionale, attaccò frontalmente gli Stati Uniti e la concezione “unipolare” del mondo; chiedeva per la Russia uno spazio vitale, contestava che la NATO premesse sui suoi confini, evocava il trauma della perdita dell’identità dell’Unione Sovietica, cominciava ad evocare la Grande Russia, ad accusare l’occidente di non portare rispetto per chi si era sacrificato a Stalingrado…
Putin chiedeva rispetto, non per sé ma per la storia del suo paese, che cominciò a identificare con la propria.
Così, nel 2014, decide di prendersi la Crimea, perché l’aveva conquistata la zarina Caterina, cioè Lui. E il mondo – più o meno – tacque.
Putin cominciò a sentirsi investito di un ruolo storico. L’erede dei grandi zar, il difensore della chiesa ortodossa; ma anche il macho a torso nudo a cavallo, l’uomo che ordina di punire le Pussy Riot con trenta frustate, l’uomo che organizza avvelenamenti ed omicidi, il vero maschio che lavora tutti i giorni del mese “perché non ha le mestruazioni”, che disprezza i gay, gli imbelli, gli americani che sono fuggiti da Kabul, che teorizza la superiorità della sua razza, che prega nella sua cappella privata, che non vuole nessuno vicino per paura del virus, o per paura di un killer. Di questo periodo, a riprova che l’animo umano è insondabile, resteranno anche le sue grottesche amicizie con Berlusconi, con Trump, con Schroeder, che ora accomuna nel “satanismo” dell’occidente.
E poi arrivò l’Ucraina, che sarà la ragione per cui Putin passerà alla storia.
Sarà ricordato come l’artefice dalla più grande catastrofe militare dei nostri tempi, con il disonore di aver comandato un esercito che ha massacrato, derubato e stuprato, prima di darsi alla fuga.
Come altri dittatori, autocrati, fanatici, anche per Putin è partita da tempo la spiegazione psichica.
Sono state chiamate in causa le sue frustrazioni, l’infanzia povera, i parenti morti nell’assedio di Leningrado, il trauma di aver assistito al crollo del suo mondo da una postazione inutile, a Dresda nella DDR, come piccolo impiegato del KGB; l’umiliazione di essere tornato in patria povero e disoccupato e con solo una lavatrice usata, la liquidazione per i servizi resi in cinque anni di onesto spionaggio.
Questa biografia - la frustrazione, le umiliazioni ricevute - spiegherebbe la china che ha preso la sua vita.
Credo che ne sentiremo anche delle altre, al 71esimo compleanno. Se ci sarà.
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