Il sentimento antiglobalista è in crescita. Sono soprattutto le fasce povere e i ceti medi impoveriti che rivendicano una politica contro la globalizzazione che un tempo invocavano, un welfare generalizzato e universalistico, e che ora sono schierate verso una restrizione dei diritti per tutti. Perché?
Arlo Poletti indaga il profilo di questo fenomeno diffuso in gran parte delle democrazie occidentali e fornisce un’interpretazione incentrata su due dinamiche strettamente connesse tra loro: l'indebolimento della leadership egemonica statunitense a fronte dell'ascesa di nuove potenze, e la crescente domanda di protezione sociale proveniente da fasce della popolazione che sono sempre più esposte a vulnerabilità socioeconomiche.
Per capire cosa intendiamo per globalismo, forse dobbiamo passare per il suo opposto, ciò che lo minaccia. Da dove nasce il sentimento antiglobalista? Quali sono le sue ragioni, e come farci i conti con consapevolezza?
Prima dinamica. Il processo in forma evidente inizia con la crisi del 2008, ma le sue radici strutturali sono molto precedenti e risiedono nella messa in crisi del modello globalista su cui si è sostenuto tutto il secondo dopoguerra: la fine dell’egemonia americana garantita sul piano economico dalla parità dollaro-oro. È Richard Nixon a decretare la fine di quel sistema. Siamo nell’agosto 1971.
Da allora il problema è definire un nuovo modello di sviluppo globalista rispetto al quale gli Stati Uniti sono altalenanti, l’Europa non decide; fa la sua comparsa un nuovo attore – la Cina – che muove il sentimento antiglobalista: nessuno è disposto a pensare oltre sé.
Seconda dinamica. L’incertezza del futuro economico di imprese in fuga verso realtà più vantaggiose genera crescente diffidenza in quegli attori sociali (ceti medi, mondo del lavoro dipendente) che vivono la globalizzazione come sfida alle loro garanzie acquisite e interpretano tutto ciò che viene a fuori come «minaccia».
L’antiglobalismo si tinge di colori identitari e discriminativi e i suoi protagonisti – le fasce che subiscono la delocalizzazione – così come i luoghi maggiormente coinvolti in questo processo sono quelli che nel tempo del fordismo rappresentavano la scelta innovativa. Domina la sindrome «nostalgia» che si risolve in richiesta di protezione.
Scrive Poletti nel capitolo conclusivo che la sfida è politica e riguarda ciò che non vogliamo affrontare, a cominciare dalle decisioni in merito di sostenibilità, che richiedono un patto tra generazioni e un patto tra realtà nazionali che devono fare un passo indietro rispetto ai loro egoismi.
Sarà lunga. Per ora sono i secondi a trionfare.
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