Un’occasione, quella dell’uscita in un’edizione tascabile dell’Attesa di Dio di Simone Weil, che ci permette di avvicinarci, in un percorso non lineare tra le lettere e i saggi qui raccolti, al pensiero di una grande filosofa.
Sia per chi ci si avvicina per la prima volta, sia per chi desidera una rilettura, il procedere attraverso pagine eterogenee e riflessioni che si richiamano per analogia, non ostacola la profondità e la bellezza degli scritti ma, anzi, ci trasporta in una lettura dalla quale il pensiero esce rigenerato.
"Attesa di Dio" è una raccolta di scritti composti fra l'autunno del 1941 e la primavera del 1942. Apparse postuma nel 1949 per le cure di Joseph-Marie Perrin, l'affabile padre domenicano che fu amico, confidente e destinatario delle sei lettere che, dettate da un ineludibile "bisogno di verità", costituiscono parte essenziale dell'opera.
In queste pagine ci si “immerge” a diversi livelli, (e tante sono le metafore legate all’acqua); le parole, le domande, le immagini che richiamano un’esperienza mistica sembrano uscire da un pensiero continuo, diffuso, che ci cattura. L’intelligenza e la sensibilità di questa “cristiana al di fuori della chiesa”, che lancia una sfida continua a chi si ritiene detentore di una verità ultima, si confronta con la poesia e la filosofia, con i miti e le religioni primordiali o dell’Oriente.
La Weil si sente sempre “imperfetta” nel cristianesimo impostole, e scarnifica le costruzioni della Chiesa per risalire alla sua verità originaria.
Ritrovandosi “fin dalla nascita all’intersezione del cristianesimo e di tutto ciò che il cristianesimo non è”, si muove in quella “soglia” legittimata ad essere “membro della Chiesa di diritto e non di fatto”, sentendosi in obbligo di obbedienza con Dio ma non con la Chiesa.
Ricerca spirituale e intellettuale s’intersecano e si confondono sia nelle sei lettere indirizzate al Padre domenicano Perrin che compongono la prima parte del libro, sia nella raccolta eterogenea dei cinque saggi, dove le esperienze spirituali della sua infanzia si uniscono alle profonde riflessioni sull’amore di Dio, il “soprannaturale” e la sua presenza segreta nella natura.
L’urgenza della necessità del cambiamento traspare ovunque, nelle richieste di una partecipazione più attiva a Perrin, come nella ricerca di una santità che prenda avvio “nell’umiltà dell’attesa, che ci rende simili a Dio, poiché è Dio stesso in attesa”, come “un mendicante della nostra attenzione”, della nostra preghiera.
L’attesa, lo sguardo, lo stare in ascolto, la descrizione degli “amori indiretti” preparatori e terreni sono tracce ricorrenti tra le righe che ci fanno sentire spesso in bilico durante la lettura, trasportati in profondità e in altezze vertiginose, come attraverso le parole dei mistici e dei santi, che si mettono a nudo con lo sguardo in estasi verso il cielo.
L’accettazione della sventura come “sradicamento dalla vita”, l’obbedienza come “apprendistato”, il dolore vissuto come “dono prezioso” al pari della gioia, da attraversare e “assaporare a fondo”, sono riflessioni che scavano nell’animo, e che se da un lato ci richiamano alle rinunce e accettazione di povertà di San Francesco o a San Giovanni della Croce, dall’altro sappiamo come in Simone Weil siano state rese attuali e operative nel suo impegno politico e sociale, nel suo attivismo partigiano, nel suo farsi operaia fra i più umili.
L’accettazione della “sventura estrema” e anzi la sua ricerca ossessiva del distacco, dell’esilio, dell’annientamento che fanno riferimento tanto alla teologia mistica medievale quanto al buddhismo e allo stoicismo, come lei stessa sottolinea, anziché essere un ripiegamento e annullamento di se stessi, in questa grande filosofa si fanno accettazione attiva.
Così, lei che si sentiva esclusa “dal regno trascendentale della verità” ci lascia un’autobiografia spirituale ancora attuale, sparsa tra le pagine, in cui cogliere oggi l’opportunità e la necessità del cambiamento insieme a quella della lotta contro ogni totalitarismo.
E questo perché dal le righe sofferte ci viene svelato che lo “sguardo che salva”, perché rivolto a Dio, è anche lo sguardo che spinge alla “compassione” estrema. La sua intera vita è stata un’attesa in movimento, poiché “quella follia d’amore (che l’ha guidata) distoglie da sé e apre varchi”.
Ed è in questi varchi che la Weil ci chiede ancor oggi di provare a muoverci, con le nostre contraddizioni e tutte le nostre miserie.
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