Otra cosa es con guitarra
Le sei interviste contenute in Cile, un popolo in movimento raccolgono le voci di sei esponenti politici cileni, tra cui il Presidente della Repubblica Gabriel Boric, e fanno emergere una panoramica eccezionalmente completa e approfondita dello stato dell’arte della democrazia nel paese. A raccontare delle proprie esperienze come militanti dei movimenti giovanili e nelle fila della politica a diversi livelli sono le nuove generazioni, quelle che non hanno conosciuto la dittatura militare in prima persona ma solo attraverso le testimonianze di genitori e conoscenti. Cresciuti in anni di forte critica verso il governo, i sei intervistati hanno preso parte a vario titolo alle contestazioni del 2006, del 2011 e, in ultimo, del 2019 – anche se alcuni di loro l’hanno fatto già dalla parte della classe politica.
A cinquant'anni dal colpo di stato di Augusto Pinochet, questo libro va dritto alla fonte con interviste esclusive a sei dei protagonisti che, dalla piazza al palazzo, hanno guidato le trasformazioni politiche e sociali di questi anni.
«Altra cosa è con la chitarra» è scritto sul biglietto appoggiato a una chitarra nello studio di Boric. È un adagio cileno – in questo caso, il biglietto l’ha lasciato al presidente l’ex ministro del governo Piñera, Juan José Ossa – che significa che un conto è parlarne, un contro è farlo. Un monito per chiunque faccia politica, soprattutto in un paese dall’eredità tanto importante e complessa, che sta a ricordare quanto vedere i problemi sia facile, altro paio di maniche è risolverli. Di questo, il presidente Boric e tutti gli intervistati in questo libro sono ben consapevoli: a nessuno sfugge che la democrazia, in Cile come altrove, pone questioni sempre più complesse e sfidanti.
Governare è assai diverso dal fare opposizione: la nuova generazione al governo lo ha ripetuto spesso e ha riconosciuto i propri limiti riportando a bordo con risolutezza nel proprio governo coloro che in passato aveva cercato di estromettere. Anche se il cammino di questo rapporto deve ancora essere tracciato, in questa nuova relazione risiede la possibilità di una sinistra democratica che superi lo strappo generazionale.
Nel 2006 è accaduto in Cile qualcosa di simile al ’68, perché in quell’anno, dalle scuole, è cominciato un movimento che aveva l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze scolastiche – in Cile, la questione delle scuole è una questione di classe, perché gli istituti pubblici frequentati dai meno abbienti hanno un’offerta formativa mediocre e non garantiscono l’accesso a un’istruzione superiore. Il tema della disuguaglianza è uno dei lasciti più evidenti e sentiti dalla popolazione dei “trent’anni di democrazia”, cioè quei tre decenni che sono seguiti alla dittatura militare di Pinochet. Dal governo della Concertazione – un esecutivo di larghe intese che teneva al suo interno Democrazia Cristiana, socialisti, il Partito Radicale democratico e il Partito per la Democrazia – fino al primo di destra dal regime, guidato da Piñera, si è assistito a una progressiva sfiducia nelle istituzioni politiche, che non riuscivano a far fronte ai problemi reali del paese.
La seconda inchiesta è dedicata a un evento più noto alle cronache, il crimine di guerra che si è consumato nella cittadina di Bucha, in Ucraina, a 25 chilometri da Kiev. Un’inchiesta premiata perché raccoglie le voci di chi ha visto e vissuto un assedio violento e feroce da una posizione scomoda, più scomoda di altre: dal Blocco 17, un palazzone costruito di fronte all’ex vetreria occupata simbolo dell’attività artigianale della città sotto l’Unione Sovietica.
Le chiavi di lettura del 2006 emergono chiaramente nelle interviste presentate in questo volume. Queste chiavi sono quelle di una generazione che politicizza la disuguaglianza sociale e lo fa a partire dalla propria esperienza educativa nella periferia di Santiago. Sono studenti il cui rendimento scolastico permette di lasciarsi alle spalle le scuole di origine per abbracciare le promesse di investimento formativo delle scuole superiori di punta. Mentre nelle scuole d’origine la traiettoria educativa si concludeva con una scuola tecnica o una gravidanza adolescenziale, nei licei emblemáticos4 l’accesso all’università (e il conseguimento della mobilità sociale) sono a portata di mano. Da queste scuole, la generazione del 2006 carica di valenza politica la questione della segregazione del sistema educativo pubblico e le sue molteplici carenze.
Quella generazione, che ha preso parte anche alle contestazioni del 2011, più strutturate e meno legate alla scuola, è ora al governo e ha un obiettivo: non dimenticarsi di quel passato lì, dei desideri e delle ambizioni sociali che arrivavano da quelle contestazioni. C’è chi lo fa come sindaca di una città, come Karina Delfino, leader, peraltro, del movimento studentesco, e chi dalla presidenza della Repubblica, ma lo sguardo sul mondo è comune. Queste donne e uomini hanno conosciuto un modo di fare politica libero che parte dal basso per arrivare a chi presiede il governo, dalle strade, dice Boric, perché è lì che risiedono le questioni più urgenti.
Disillusi, certo, e consapevoli che non si possano accogliere tutte le istanze che giungono dal basso, i punti principali e comuni di un programma collettivo sono ridurre l’individualismo che si è cristallizzato durante la dittatura e rendere la politica di nuovo degna di fiducia. Non solo la politica, in realtà, ma qualcosa di più: la democrazia. «Come dico sempre ai miei colleghi – racconta Delfino – non dobbiamo perdere di vista il motivo per cui siamo qui, ovvero cambiare in meglio la vita delle persone. La politica è questo».
I parlamentari devono legiferare, e questo è un bene, ma alla fin fine non vivono in mezzo alla comunità. Credo siano molto pochi quelli che riescono a conciliare una fitta agenda di attività sul territorio e un’intensa attività legislativa in parlamento senza lasciarsi coinvolgere da questioni che non li riguardano. È complicatissimo calare il mondo legislativo nel contesto territoriale o, viceversa, fornire input al mondo legislativo operando dal territorio. Sono davvero pochi quelli che ce la fanno.
Il Cile riesce, perciò, anche con questa nuova generazione al governo, a essere agli occhi del mondo un «laboratorio di democrazia», dove si procede per tentativi, che hanno però una missione comune: la «felicità collettiva». Una felicità cui non si arriva per nessuna strada facile, e che è anzi costellata di frustrazioni. Ne sono un esempio la burocrazia farraginosa e indifferente, la protesta per il rincaro dei biglietti dell’autobus («Non sono i trenta pesos, sono i trent’anni» lo slogan, in riferimento al periodo di democrazia post-dittatura), e, soprattutto, il fallimento elettorale della nuova Costituzione. Una ferita con cui Boric stesso sta ancora facendo i conti, ma per la quale nessuno di questi nuovi politici perde di vista la meta – che, casomai, si fa percorso, appunto laboratorio, costellato di successi e lezioni.
Con queste sei interviste si dà la misura di cos’è il Cile oggi e, soprattutto, ci interroga sulle nostre modalità democratiche, qui dove si sono imbolsite e non hanno più molta presa. In Cile, del resto, la democrazia è processo, in Italia e in tante parti d’Europa, forse, è diventata un oggetto su cui riflettono in pochi e che i più trovano di difficile comprensione. Per questo guardare all’esperienza cilena attraverso chi la democrazia la fa diventa un gesto fondamentale per riportare in auge buone pratiche collettive, politiche ed etiche.
Credo che questo sia il problema principale della democrazia: il fatto che a volte non se ne veda il senso
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