Andrea Pennacchi - attore, regista e autore sia di testi teatrali che, più di recente, di libri - ci è venuto a trovare per presentare il film Le mie ragazze di carta, in uscita al cinema il 13 luglio diretto da Luca Lucini. Qui potete ascoltare e leggere la nostra intervista.
Di origini venete, è proprio nella sua terra che ha scelto di tornare con la mente quando gli abbiamo chiesto di citarci un suo libro cult. E con evidente emozione di ha parlato non solo di un libro ma di un autore che, concordiamo con lui, va assolutamente riscoperto: Luigi Meneghello.
E di questo autore veneto, cresciuto durante il fascismo e divenuto in seguito partigiano e, dopo la guerra, professore universitario, ha citato i due capolavori: Libera nos a Malo (1963) e I piccoli maestri (1964).
In entrambi i romanzi è centrale la dimensione autobiografica, che costituisce la spinta primaria della scrittura di Meneghello. Un punto di partenza privato, umanissimo, che rivela tutto il carico emotivo che scaturisce dal ricordo di luoghi e affetti di un tempo passato di cui vuole mostrare intensità e autenticità. Memorie in cui l’autore non indugia però a lungo e in modo nostalgico, ma che utilizza come strumento di riflessione e conoscenza, allargando la visuale dal proprio personale vissuto ad una dimensione universale.
Tra i romanzi citati, vogliamo porre l’attenzione in particolare su I piccoli maestri (Rizzoli) in cui Meneghello racconta in prima persona la sua esperienza di partigiano nei boschi dell’altipiano di Asiago.
Subito dopo l’8 settembre 1943 uno sparuto gruppo di studenti vicentini, guidato da un giovane professore antifascista, si dà alla macchia sull’altopiano di Asiago per tentare di organizzare la Resistenza. La voce narrante – autoironica, commossa e marcatamente autobiografica – dipana un lungo filo di agguati, rastrellamenti, uccisioni, “fughe” e “atti di valore” di cui i ragazzi si rendono protagonisti e vittime.
Racconta la storia della sua avventura partigiana, descritta senza toni epici, eroici, ma con quell’understatement e quell’ironia che lo caratterizza
Una testimonianza fondamentale su un momento chiave della nostra storia che arriva a distanza di alcuni anni dalla fine della guerra, per esattezza nel 1964 con successiva revisione nel 1976, diversamente da quella di altri grandi autori che hanno raccontato la Resistenza più a ridosso dell’esperienza vissuta come, ad esempio, Vittorini (Uomini e no, 1945) o Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947).
Forse anche grazie alla distanza temporale, capace di smussare alcune tensioni e i toni della narrazione, la testimonianza di Meneghello spicca per la sua impostazione antieroica e antiretorica.
Macché atti di valore. Non eravamo mica buoni, a fare la guerra
Subito dopo l’8 settembre 1943, un esiguo gruppo di studenti vicentini, guidati dal giovane professore antifascista Antonio Giurolo, si dà alla macchia mosso da un profondo desiderio di libertà, giustizia e democrazia. Sono “i piccoli maestri” che ritroviamo nel titolo del romanzo. Studenti universitari pieni di ideali, ma ingenui e non avvezzi alla guerra. Eppure, a loro modo, straordinari protagonisti di un doloroso percorso di crescita indotto dalla tragedia collettiva che stavano vivendo.
Sotto la grande lente dell’ironia che utilizza Meneghello, scelta per abbassare il tono ed evitare qualsiasi tipo di retorica, quanto mai aberrata dopo il ventennio fascista, percepiamo tutta la sua passione e la volontà di fare della sua scrittura un mezzo di riflessione e conoscenza. E, allo stesso tempo, riviviamo la fatica di quei giorni e la spavalderia della giovinezza che si scontra con la paura dei rastrellamenti, il freddo che entra nelle ossa, le battaglie combattute come meglio si poteva, le uccisioni che portano via i compagni.
Un insegnamento di dedizione e impegno civile che ancora oggi riceviamo da questi “piccoli maestri” resi immortali dalla scrittura di Meneghello.
Fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano. Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi, e quel paesaggio s’è associato per sempre con la nostra idea della libertà
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