Luce sulla Storia

Per vederci chiaro. Giovanni Pirelli, l’Algeria e il terzomondismo

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Mi sono meritata 90 giorni di cella per aver gridato al direttore e al capo sorvegliante che «il loro compito era di custodirci e non di bastonarci», credo, d’altronde, che non sono queste parole che mi hanno fatto andare in cella, è il mio nome.

A scrivere è Zohra Drif', studentessa in legge all’Università di Algeri. Catturata il 24 settembre dello stesso anno, nella Casbah, viene accusata di aver partecipato ad alcuni attentati e per questo condannata a vent’anni di lavori forzati. È il 12 dicembre 1957. Si tratta di una lettera, allora inedita, indirizzata all’avvocato Pierre Gautherat del foro di Parigi. Una delle centinaia di lettere sulla causa algerina raccolte da Giovanni Pirelli e Patrick Kessel, pubblicate in edizione francese nel 1962 dall’editore Maspero e l’anno seguente in traduzione italiana da Einaudi.

La storia dell’Islam? In effetti appartiene a tutti i musulmani di tutto il mondo e non ha nulla di algerino. Ondeggiamo, nessuna società è veramente nostra!
Perché dico «francesi» e non, secondo la consuetudine, «colonialisti»? Semplicemente perché questa è la realtà. Niente mi riesce orripilante quanto la «coscienza pulita» della maggioranza degli intellettuali francesi.

Giovanni Pirelli è stato uno scrittore, «organizzatore di cultura», sostenitore di molte iniziative culturali e dichiaratamente politiche degli anni cinquanta e sessanta. Quel laboratorio di sperimentazioni che ha alimentato la sinistra italiana del secondo dopoguerra, dalle Edizioni Avanti! – poi del Gallo – nate in seno all’Istituto Ernesto de Martino di Gianni Bosio, ai Quaderni rossi di Renato Panzieri.

L’11 marzo 1973, l’auto su cui viaggiava insieme al fratello Leopoldo viene tamponata in una galleria dell’A12 prendendo fuoco. Dopo venti giorni di ricovero Giovanni Pirelli muore presso l’ospedale di Sampierdarena. A distanza di cinquant’anni dalla sua scomparsa ricordiamo il suo impegno per la causa algerina e terzomondista.

Nel percorso politico di Pirelli, la guerra d’Algeria è un punto di svolta che caratterizza tutta la sua attività intellettuale e militante. Alla fine degli anni cinquanta, una piccola rete clandestina si organizza anche in Italia a sostegno dei Réseaux Jeanson e Curiel che agivano tra Francia, Svizzera e Belgio. È in seno a questa rete che l’impegno di Giovanni Pirelli si inserisce come uno dei «fili principali» – scrive la storica Mariamargherita Scotti.

Per Pirelli, l’impegno nella lotta indipendentista si poneva in linea di continuità con l’esperienza della Resistenza, a cui lui stesso aveva partecipato in Val Chiavenna nella brigata Garibaldi Zampiero. Le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana e le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea sono l’antecedente diretto del suo impegno sul “fronte” anticoloniale. Anche in questo caso, Pirelli si immerge nelle faglie di conflittualità del suo presente con attitudine da storico. Mette in campo la sua inclinazione alla raccolta documentaria per “dare voce” a questa esperienza di attivazione dal basso e autodeterminazione nazionale.

Le Lettere della rivoluzione algerina e i Racconti di bambini d’Algeria aggiungono una tessera al mosaico.  Contrastano radicalmente con uno schema interpretativo che faceva degli algerini le vittime di un sistema colonialista anziché la forza di un processo di liberazione nazionale. La raccolta delle lettere algerine viene portata avanti con circospezione nei primi anni sessanta, «in uno stato di guerra e di persecuzione poliziesca» – scrivevano i due curatori nell’introduzione al volume:

vorremmo qui aggiungere l’impossibilità di stabilire un collegamento, anche epistolare, con la quasi totalità degli autori dei documenti, le legittime cautele delle persone alle quali ci siamo rivolti, le nostre stesse cautele per non dare pubblicità al lavoro mentre era in corso.

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Nel giugno 1962, Giovanni Pirelli è tra gli organizzatori di una mostra fotografica e documentaria dedicata alla lotta di liberazione algerina. Curata da Albe Steiner e allestita a Milano nelle sale del Palazzo Reale con il titolo La nazione Algeria.

Il passo tra l’impegno algerino e il terzomondismo è già compiuto. Ne troviamo traccia nel testo di presentazione della mostra. Qui il tentativo di costruire un nesso tra le lotte di liberazione dei popoli coloniali e il movimento operaio occidentale appare come la diretta prosecuzione dell’impegno nella causa algerina.

L’evoluzione terzomondista di Pirelli prende corpo nella fondazione, a Milano, del centro di documentazione dedicato allo psichiatra martinicano Frantz Fanon. Un incontro che Pirelli aveva fatto nel corso dei primi viaggi a Tunisi e che tra i suoi frutti vedrà la pubblicazione dell’edizione italiana per l’Einaudi de Les damnés del a terre, ultima opera di Fanon prima della sua morte nel dicembre 1961.

«Era necessario vederci chiaro», scrivevano nella presentazione di questo nuovo istituto – pubblicata sul n. 11 dei Quaderni Piacentini – per creare uno strumento di lavoro che permettesse di analizzare a fondo i vari fronti delle lotte di liberazione dei paesi colonizzati e mettere in luce le connessioni con le lotte di classe dei paesi occidentali, “sviluppati”.

Nel gennaio 1966 il governo castrista organizza all’Havana la prima Conferenza Tricontinentale a cui partecipano i delegati di ottanta differenti paesi. L’anno seguente, l’editore Feltrinelli dà vita al progetto editoriale Tricontinental, organo bimestrale dell’organizzazione di solidarietà dei popoli d’Asia, Africa e America Latina. Siamo alle origini di una corrente terzomondista che innerverà profondamente la stagione del cosiddetto lungo Sessantotto.

L’attitudine a connettere vari fronti di agitazione, andando a scoprire l’alterità per guardare con sguardo diverso il proprio punto di partenza, arriva per vie carsiche fino ai movimenti politici degli anni novanta e duemila. Ciò che Alessandro Leogrande a margine delle giornate di Genova 2001 definiva «il seme sotto la neve» risvegliato dal movimento dei movimenti. «Quell’embrione transnazionale dalle molte lingue» fondamentale per potersi connettere in una dimensione globale, per accorciare le distanze e farsi carico delle questioni e delle storture dei mondi altrui.

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