La mattina dell’11 dicembre 1992, trent’anni fa, un gruppo di circa 500 manifestanti riuscì a entrare a Sarajevo, sotto assedio dal 5 aprile dello stesso anno. Erano partiti dal porto di Ancona a bordo della nave Liburnija; Paolo Bernabucci, uno dei partecipanti alla manifestazione, ricorda così la scelta di unirsi al gruppo dei partecipanti:
Ero consapevole di quello che poteva succedere ma io pensavo che fosse la cosa giusta, non si poteva continuare a stare al mare a prendere il sole, e a fare la vita normale quando a poche decine di km dall’altra parte si faceva la guerra, e non era un gioco, un gioco di ruolo, era la guerra vera. Si lanciavano granate al mercato del pane.
La marcia — organizzata per iniziativa dei Beati costruttori di Pace di Padova — rappresentava una delle varie anime del movimento pacifista italiano. Attraverso l’interposizione non violenta, dicevano, di quanti erano arrivati nelle strade di una città “interrotta” dall’assedio si ponevano l’obiettivo “semplice” ma radicale di intralciare il conflitto. L’intenzione era generare un ingombro fisico, per imporre una sorta di tregua anche se non ufficializzata dalle autorità. Così racconta Bernabucci:
Sarajevo era una città chiusa, non si poteva entrare perché ti sparavano i serbi e anche gli altri […]. La gente, gli abitanti di Sarajevo, erano in questo incubo. Noi volevamo dire — Anbino Bizzotto, gli organizzatori soprattutto volevano dire: dove non può l’Onu, può il popolo, se l’Onu non può fare la parte giusta e non può rompere questo assedio, possiamo noi, i pacifisti. E io mi sentivo uno di questi, orgoglioso di esserlo […]
La Bosnia, delle sei repubbliche che componevano la Jugoslavia, era la più multietnica, e a Sarajevo in particolare, il melting pot tra le varie etnie — bosgnacca (musulmana), serba (ortodossa) e croata (cattolica) — assumeva la forma di «un amalgama non più scomponibile». I primi di marzo 1992 un referendum aveva determinato l’indipendenza della Bosnia Erzegovina, appuntamento esplicitamente boicottato dalla parte serba della comunità. Di lì a poche settimane i cecchini serbi sparavano sulla folla durante la manifestazione pacifista del 5 aprile, il giorno scelto come data di cesura tra il prima e il dopo, quando l’agguato dei cetnici sulla folla dei partecipanti significa evidentemente l’inizio della guerra.
Alle 9:41 del 5 giugno 1992, dall’interno di un’abitazione, una telecamera riprende dall’alto l’angolo di una strada. Un uomo con voce ferma descrive la scena: «ieri è stato ucciso un nostro vicino da una scheggia di proiettile. Qui» nel frattempo quattro passanti, tra cui una bambina, entrano nel campo dell’inquadratura, camminano “normalmente” con passo calmo. Le scene della vita a Sarajevo durante l’assedio restituiscono la follia di quell’impasto tra la vita quotidiana che resiste con sfrontatezza e la morte; la sequenza appena descritta è parte del documentario, Ti ricordi Sarajevo?, dei registi Sead e Nihad Kresevljakovic e Nedim Alikadic, un collage di video amatoriali che dell’assedio restituisce uno spaccato agghiacciante.
Ma allarghiamo il campo al contesto internazionale: in quegli stessi giorni di dicembre 1992 il governo italiano decideva di prendere parte all’operazione militare di pace ONU, capitanata dagli USA, per sedare le instabilità politiche Somale, con la missione Restore Hope. I riflettori della stampa italiana erano rivolti alla partenza delle cinque navi militari pronte a raggiungere il fronte dell’operazione africana. L’attenzione al contesto balcanico risultava di conseguenza ridimensionata, come scriveva Sergio Zavoli per “l’Unità” del 10 dicembre ’92: «Non conta granché se, in un altro canale, si muore ugualmente di fame, di malattia, di sterminio. Come, per esempio, a due passi da casa, a Sarajevo. Dove la guerra resterà quasi sconosciuta fino a quando non le toccherà, a sua volta, di andare in scena». In questa cornice, la marcia dei 500 si configura come un gesto utopico, in netto contrasto con «la realpolitik fondata sull'uso del diritto internazionale basato sulla forza», citando un’intervista a Gianfranco Bettin — tra i manifestanti in quella occasione — allora deputato per la Federazione dei Verdi.
Com’è noto, la marcia dei 500 resta un’iniziativa dal valore simbolico, l’assedio della città di Sarajevo continua ad andare avanti ancora per due anni, fino alla pace di Dayton del dicembre 1995. Il saldo delle vittime è impressionante se contestualizzato appena al di là del mare Adriatico, a inizio anni novanta: 12 mila morti, più di 50 mila feriti, con un tasso di morti civili superiore all’80%. Ma «per la pace ci vuole di più», scriveva Zlatko Dizdarević il 22 novembre 1995, in una delle sue lettere dalla città assediata, pubblicate per “La Repubblica”. «A Dayton la forza ha vinto sulla giustizia. I principi su cui l’Onu, l’Unione europea, la Csce fondano la propria esistenza sono stati stracciati. Tra una pace artificiale e una giustizia elementare è stata scelta la prima».
Tornando a quell’11 dicembre 1992, Paolo Bernabucci racconta così il movente della sua scelta:
Ho dato la mia adesione come singolo cittadino, come rappresentante della cosiddetta società civile, quindi ero molto autonomo, molto individualista, ma molto consapevole che le scelte individuali hanno un’incidenza in quelle collettive, quindi bisognava fare la propria parte […]. Era certo che non bisognava lasciare solo alle armi e solo all’odio di fare… di dettare le danze, come si dice. Anche chi era contro doveva dire la sua, queste cinquecento persone […] che da gran parte d’Italia, alcune anche dall’estero, avevano dato la loro disponibilità ad andare, a entrare, a rompere gli assedi.
Ricordare un’iniziativa come la marcia dei 500 acquista di senso di fronte alla guerra in Ucraina e alla difficoltà che l’opzione pacifista ha incontrato oggi come forma di antagonismo alla guerra in corso. Che fine ha fatto il movimento pacifista? Il pacifismo che non si risolve in un semplice dire di no all’uso delle armi ma propone teorie alternative per la risoluzione delle instabilità politiche? Inabissato nella più generalizzata “crisi dei movimenti”?
Le domande restano aperte, ma soffermerei l’attenzione su un dato: negli scorsi mesi, la società civile italiana ha risposto in maniera incredibile alla crisi umanitaria. Circa 15 mila famiglie hanno dato la disponibilità ad accogliere rifugiati nelle loro case, dopo la decisione dell’Unione europea di varare la direttiva 55 del 2001 e concedere la protezione temporanea ai profughi ucraini (purtroppo solo quelli, ma questa è un’altra storia). Forme di attivazione spontanea come questa, anche se scardinate da un movimento collettivo e agite in maniera individualista, continuano ad alimentare una rete di solidarietà che riverbera forse qualcosa di quello stesso impulso a partecipare andato in scena nel dicembre 1992.
Di
| Neri Pozza, 2022Di
| Orecchio Acerbo, 2021Di
| Zambon Editore, 2013Di
| Infinito Edizioni, 2020Di
| Edizioni dell'Asino, 2014Altri approfondimenti
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