Qual è il nostro miglior tempo? Alla domanda posta dal titolo dell’ultimo romanzo di Alberto Rollo, ciascuno di noi potrà rispondere solo dopo averla fatta risuonare in sé, lungamente.
Il miglior tempo è forse quello che otteniamo nelle prove ad ostacoli imposte da una società che sull’efficienza misura il nostro diritto a farne parte?
Oppure è quello che viviamo inconsapevoli – e in questa inconsapevolezza sta forse la radice della sua qualità unica e speciale – da giovani, riconoscendolo come “migliore” solamente a posteriori?
La risposta più vera e più giusta è però lo stesso Rollo a suggerirla: il tempo migliore è sempre quello che verrà. È il futuro.
E un futuro può dirsi tale e mantenere la sua promessa solamente se si addensa attorno a un “noi” possibile.
Così, leggendo Il miglior tempo (Einaudi Stile Libero) seguiremo il protagonista Filippo “Cantor” Castelli nel corso della sua ricerca disordinata, incessante e forse infruttuosa di una figura autorevole, quella di un maestro cui affidarsi e grazie al quale diventare finalmente sé stesso. Cantor cercherà dapprima il suo mentore nella figura del dottor Romagnoli, suo pediatra in età infantile e appassionato cultore di musica classica, e successivamente in un muratore, un amico pakistano impegnato nel sociale, un sacerdote… ma sempre fuggendo. Sempre rimanendo, al fondo, chiuso in sé stesso e tradendo l’occasione di aprirsi pienamente all’amore della sua vita, Anna.
Approderà a un porto sicuro, la fuga senza fine di Cantor?
Ne parliamo con Alberto Rollo, assieme a qualche considerazione sul prendersi cura delle parole proprie e di quelle altrui.
«È come se per lui tutto il mondo fosse in allarme». Una giovinezza in fuga e un maestro che non si arrende. Due generazioni si sfiorano: una ricca del tempo che ha vissuto, l'altra incapace di trovare un posto nel tempo.
L'INTERVISTA
Il titolo “Il miglior tempo” sembra consentire diverse interpretazioni: c’è un’idea che rimanda all’atletica, e ce n’è una che sembra invece alludere alla giovinezza… qual è l’accezione più giusta di questo titolo ambiguo.
È ancora più ambiguo di così, c’è un’altra dimensione del miglior tempo: è quello a venire, il futuro.
Paul Nizan scriveva in “Aden Arabia”: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la migliore età della vita”. Filippo “Cantor” Castelli lo sottoscriverebbe?
Credo proprio che lo potrebbe sottoscrivere, ma è troppo impegnato per poter anche solo pensare una frase come quella, lui sa solo quello che sta affrontando in quel momento: è una maniera di essere giovani, anzi, forse è l’unica maniera di essere giovani.
Nel suo rapporto con il dottor Romagnoli c’è la ricerca di un maestro, questo è un tema che mi sembra importante nel tuo romanzo. Vuoi dirci qualcosa di più?
Filippo “Cantor” Castelli sente il bisogno di un maestro, ma conduce questa ricerca in maniera spesso disordinata. Cantor sceglie, o si fa scegliere, da quello che è stato il suo pediatra, un uomo colto, ora a riposo, dedito all’ascolto della musica e che vorrebbe instradare il giovane in questo mondo; questa è la prima delle strade che Cantor non può prendere e da qui comincia la storia del “miglior tempo” e la sfrenata ricerca di figure magistrali a cui affidarsi.
… e Anna? Cosa possiamo dire di lei?
Anna, fidanzata di Cantor, resta incinta, ma in un primo momento non glielo dice, forse per timore che lui non sia interessato alla paternità: Cantor è per natura un Don Giovanni mozartiano, un seduttore che ama far felici più donne, un personaggio caotico. Qualcuno potrebbe dire che questo è il caos di un narcisismo mal governato e forse lo è, ma a me la visione psicologica non interessa: io sono stato rapito da questo personaggio, mi ha trascinato lui in questa situazione, gli ho obbedito anche quando mi era antipatico.
La musica attraversa il tuo romanzo come una filigrana. È dappertutto, nel ciuffo alla Glenn Gould del protagonista, nelle melodie di Schumann ascoltate dal dottor Romagnoli… che spazio riconosci alla musica, nella narrazione?
La musica è da questo punto di vista fondamentale. È l’area in cui vive questo anziano signore che ha rinunciato alla professione per poter girare l’Europa per concerti. Inoltre, Schumann e tutti coloro che vengono citati appartengono a una stagione ben precisa della musica classica, cioè il romanticismo, con la sua ansia di parlare spesso in assoluto, di “afferrare l’attimo”: c’è il sentimento di una giovinezza mai sazia che si traduce in musica.
A proposito del lavoro sulle parole: tu ti prendi cura da tempo delle parole altrui. Com’è prendersi cura delle proprie parole?
È complicato. Il modo in cui io mi prendo cura delle parole altrui è completamente diverso perché c’è una dimensione professionale, anche affettiva, ma professionale, mentre qui devo obbedire a un dettato interiore.
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