I greci antichi?
Gente che sopportava il dolore e che nell’occultarlo agli occhi degli altri, trovava forza. Gente seria.
Il cristianesimo?
Difficile immaginare una religione meno spirituale di quella che ha bisogno di attaccarsi alla resurrezione della carne, per perpetuare il proprio credo.
La scuola italiana?
Tutta da rifare. Radicalmente e senza perdere tempo.
Parlare con Umberto Galimberti significa invariabilmente disporsi a rimettere in discussione tante delle proprie certezze. È un esercizio, quello che il Professore propone attraverso la sua assertività, che raccomanderemmo caldamente a tutti: in un’epoca di opinioni spesso precotte o prese in prestito, ascoltare una voce che ci esorta ad avere il coraggio delle nostre idee è una boccata d’aria fresca.
Abbiamo incontrato Galimberti in occasione dell’uscita dei suoi due nuovi libri.
Il libro delle emozioni e Che tempesta! sono due libri che riescono a rendere viva, palpitante e sempre accessibile la materia della propria indagine e del proprio racconto: le emozioni, nell’infinita varietà di colori e risonanze interiori che muovono in noi che le proviamo.
Se Platone invita a privilegiare la mente razionale, capace di governare le passioni, non possiamo dimenticare che anche il cuore ha le sue ragioni. Anzi, prima che la mente giungesse a guidare la vita dell’uomo, per i nostri antenati la vita era governata dal cuore.
Scritto con Anna Vivarelli, pluripremiata scrittrice per l’infanzia, Che tempesta! 50 emozioni raccontate ai ragazzi è imperniato sull’idea che occorra dotare i più giovani di un lessico emotivo, educarli alle emozioni fin da piccoli per renderli in seguito capaci di riconoscerle, esprimerle, gestirle e, soprattutto, non venirne sopraffatti. Qui le emozioni vengono presentate tramite cinquanta storie, situazioni di vita quotidiana, leggende, miti, letteratura: dalla rabbia alla gioia, dalla tristezza all’amore e alla paura. Un vademecum che – ne siamo certi – accompagnerà i giovanissimi lettori a una maggior consapevolezza di sé, fornendo un tassello importante per poter godere appieno dei frutti di quella che Daniel Goleman ha chiamato “intelligenza emotiva”.
E per chi è ormai cresciuto? Il libro delle emozioni indaga il tema in chiave filosofica e sociologica, delineando lo spazio riservato alle emozioni nell’era della razionalità tecnica e della ricerca di visibilità.
Uno spazio mutevole, dei cui confini cangianti è bene essere consapevoli e che è bello esplorare in compagnia di un cicerone come Galimberti, capace di ricondurre in uno stesso alveo suggestioni e ambiti disciplinari diversissimi. È un viaggio che sentivamo il bisogno di fare, oggi più che mai.
L’importante, con Galimberti (ve lo diciamo in confidenza) è tenersi lontani da alcune parole abusate.
In particolare, nel caso in cui vi trovaste a fare quattro chiacchiere con il Professore non utilizzate – ripetiamo: non utilizzate! - un aggettivo che sembra aver il potere di scatenare in lui una tempesta di emozioni. Non sempre positive.
L'INTERVISTA
Buongiorno professor Galimberti, come sta? oggi ha un aspetto particolarmente resiliente…
… resiliente??? Quella parolaccia dovrebbero toglierla dal vocabolario!!!
Ho scritto un articolo contro questa parola. È usata dagli psicologi, sì, ma è una parola che viene dalla fisica, dal trattamento dei metalli. Ma gli uomini non sono metalli.
Professore, nel rispondere alla nostra innocua provocazione lei si è dimostrato un po’ emotivo… scherzi a parte, partiamo proprio da una parola, “resilienza”, che – come tante altre, oggi – è un’esortazione ad uscir fuori da ogni forma di sofferenza, senza interrogarne il senso. Come mai le domande che il dolore ci pone in quanto esseri umani proprio non trovano posto, nella società dei consumi?
Perché non siamo più greci e non siamo neppure più cristiani.
Per i greci il dolore faceva parte della vita e il loro atteggiamento era abstine et substine: sopportalo ed evita di metterlo in scena. Gente seria.
Per i cristiani, invece, il dolore è una caparra per l'eternità, quindi aveva un significato, aveva un senso.
E poi redimeva dal peccato… e una volta che gli conferisci un senso, la cosa è più accettabile.
Oggi, invece, non essendoci più riferimenti culturali - né quelli greci nei quali cristiani, che sono le radici dall'occidente - va da sé che il dolore resta incomprensibile e inaccettabile. E viene affidato alla tecnica medica la quale lavora, appunto, tecnicamente e non umanamente: cura ma non si prende cura. La dimensione antropologica quando tu soffri non è presa in considerazione. Gli psichiatri curano con le pillole, i medici con il protocollo.
Riconoscere le proprie emozioni ed educare ai sentimenti sono sfide importantissime per la formazione di ogni ragazza o ragazzo. Il filosofo Umberto Galimberti accompagna il lettore verso questa tappa fondamentale attraverso un viaggio illustrato alla scoperta di noi stessi.
Qual è il primo insegnamento che ricorda di aver tratto da un’emozione provata in prima persona?
Avevo 15 anni quando ho incominciato a leggere un libro di Tolstoj, Resurrezione, dove c'è la storia di una prostituta e quando mia mamma si è accorta che leggevo quel libro, me l'ha stracciato. Lì ho cominciato a domandarmi "... ma i libri si stracciano o si leggono?". Dopo che ho raccontato questa storia, tutti si sono fatti carico di regalarmi Resurrezione - anche in edizioni rilegate, storiche, e oggi ho a casa cinque o sei edizioni di quel libro.
Lei parla anche ai ragazzi, e a quell’età in cui saper riconoscere e gestire le emozioni è più difficile. I ragazzi si avviano verso un nuovo anno scolastico carico di incognite. Quali effetti sortirà, sul carattere dei più giovani, la situazione determinatasi nelle scuole a causa della pandemia?
A causa della pandemia i ragazzi hanno perso un anno scolastico e la cosa migliore che si poteva fare era farglielo ripetere... ne hanno perso uno e mezzo, anzi, e non mi vengano a dire che attraverso la didattica a distanza la gente apprende qualcosa!
Tutti i processi educativi vengono sospesi: con la didattica a distanza al massimo istruisci, rapsodicamente, senza continuità e senza costrutto. Per quanto riguarda la distanza sociale, però, io non darei la colpa al virus: la chiamerei piuttosto distanza virale, perché la distanza sociale l'ha generata l'informatica. I ragazzi erano già nella "distanza sociale" perché parlavano con i loro amici attraverso il computer, i telefonini... questa è la grave situazione che l'informatica ha prodotto nella modalità di percepire il mondo che non si percepisce solamente in immagine, nella modalità di relazionarsi per cui possono parlare con loro amico in Australia e poi non conoscono il vicino di casa, il compagno di scuola, l'amico del bar... la mancanza di fisicità - ecco, la vera distanza sociale è questa - è stata creata dall’informatica.
Platone, invitando a diffidare del corpo per avvicinarci a una verità dello spirito, non ha forse alimentato un equivoco che – perfezionato da Cartesio e dal pensiero scientifico - ancora oggi perdura?
Certo. Perché noi siamo ancora tutti platonici. Tutti sono convinti di avere un'anima e un corpo, solo che Platone diffidava del corpo perché voleva costruire un sapere universale, valido per tutti. E un sapere universale valido per tutti non lo puoi costruire sulla base delle sensazioni corporee... e qui, se fa caldo o se fa freddo i nostri corpi registrano cose diverse, quindi il corpo lo dobbiamo mettere da parte e dobbiamo procedere con idee, misure, quantità, numeri, che sono dimensioni astratte. E allora Platone si chiede qual è l'organo che produce queste idee astratte? e, per rispondere, introduce la parola "psiche", anima. Ma i cristiani non avevano nessun concetto di anima, perché se c'è una religione rigorosamente corporea è proprio il cristianesimo, il centro del cristianesimo è l'incarnazione di Dio... mica roba da poco, eh? E anche quando i cristiani recitano il credo che è il loro atto di fede dicono di credere nella resurrezione dei corpi, non nell'immortalità dell'anima, perché l'anima non esiste, nella religione cristiana e neanche nella bibbia: è stato Agostino, che era un neoplatonico, a prelevare da Platone il concetto di anima e a inserirlo in uno scenario che non era più uno scenario di conoscenza ma uno scenario di salvezza. E da allora in poi, tutti sono convinti di avere un'anima. Cartesio, poi, ha radicalizzato la cosa e tutt'oggi le cose vanno così. Dopodiché le emozioni, finché funziona questa cosa, sono trattate male perché l'anima le tiene a bada, l'anima le contiene.
Senta Professore, in “Che tempesta!”, il suo libro illustrato da Anna Vivarelli e indirizzato ai lettori più giovani, lei passa in rassegna tante emozioni, riuscendo a comunicarne l’essenza con una lingua accessibile. Ne sceglie una, fra le tante, e ce la racconta così come la racconterebbe a un ragazzo?
Mah, io comincerei a chiarirgli le idee. Per esempio: i ragazzi, di solito, hanno paura, no? Hanno paura. Anche noi adulti, in occasione dalla pandemia, avevamo paura. Al ragazzo farei notare che la paura ha sempre un oggetto determinato: tu vedi il fuoco e hai paura e perciò ti puoi difendere. La paura è un ottimo sistema difensivo. Vedi un cane che ti abbaia e hai paura, ti allontani... ma c'è una cosa determinata che ti fa paura, mentre l'angoscia non riguarda un oggetto determinato. Tu, caro bambino, caro ragazzo, l'angoscia la provi quando - per esempio - eri piccolino, andavi in camera, non ti eri ancora addormentato, la mamma spegneva la luce e a quel punto tu non avevi alcun più alcun riferimento, nulla cui agganciarti. L'angoscia è in relazione al nulla e al rapporto col nulla. Si capisce, per un bambino? (ride - Ndr)
... Sì, si capisce. Come sempre, quando è Umberto Galimberti a raccontare. Grazie, Professor Galimberti, e al prossimo libro!
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