I milanesi non scorderanno in fretta le immagini, durante i mesi di reclusione, di quella città livida, chiusa, in cui giravano solo rider e ambulanze. La vernicetta luccicante delle apparenze si è un po’ scrostata ed è il momento di vedere se sotto c'è una narrazione credibile
Per il Monterossi, le luci a San Siro sono sempre accese, e lo aiutano a vederci più chiaro nei casi su cui indaga. Già: il più riluttante degli autori di deprecabili programmi di TV spazzatura ha un vero talento per leggere fra quelle pieghe che la sua città, scintillante in apparenza, si ostina a voler occultare come polvere sotto a un tappeto.
In Flora, edito da Sellerio (2021), lo scrittore milanese Alessandro Robecchi racconta l’ottava avventura di Carlo Monterossi, il detective per caso nato dalla sua penna e detentore di un dossier etico-morale attraverso il quale consegna al lettore la propria visuale su intrighi e misfatti. Questa volta, la matassa da dipanare è il rapimento di Flora De Pisis, regina del piccolo schermo e del trash nazional-populista della Grande Tivù Commerciale.
Una delle avventure più coinvolgenti di Carlo Monterossi ambientata, come sempre, in una Milano vista dai banconi dei bar, dai salotti borghesi, dalle scrivanie degli uffici, dai marciapiedi e dalle finestre dei palazzi di periferia.
L'INTERVISTA
La vicenda narrata in Flora prende avvio dal rapimento di Flora De Pisis, che nei precedenti romanzi del Monterossi era solo una comprimaria.
Quando hai capito che Flora si sarebbe presa le luci della ribalta?
Ho voluto mettere Flora in primo piano per due motivi: il primo era per riflettere sul peso che ancora oggi ha la tv, spesso considerata un media al tramonto, e, in particolare, sul peso di un certo tipo di televisione. Il secondo è legato al fatto che durante il primo lockdown la gente avesse guardato molto la televisione e molte brutture trasmesse sul piccolo schermo. Volevo raccontare cosa ci fosse dietro quella mediocrità: le storie pettinate, la sistematica fucilazione del pudore a e l’aggravante per cui si passa dalla finzione al racconto del dolore vero.
La vicenda illustra bene il rapporto che molti intrattengono con il mondo dello spettacolo: si parte da un sentimento di invidia e frustrazione e si arriva spesso alla pietà. E nella trasformazione di Flora, assaporiamo tutta questa gamma...
Da tempo avevo in mente di tirar fuori Flora da quella specie di guscio pettinato e plastico nel quale lei si muove come una regina. L'incontro che ha dato forma alla storia è stato quello col poeta Robert Desnos, che mi ha spinto a raccontare della mediocrità e della banalità dei nostri media, basati su una reiterazione dell'ovvio in cui l'unica innovazione è esagerare sempre più. Desnos, e con lui il movimento surrealista, è riuscito a far sembrare vecchio tutto quello che era tragicamente uguale a prima, a creare una rottura.
Già: il libro, infatti, è anche un tributo al poeta, alla sua storia e ai suoi versi, che emergono lungo tutto il racconto come un fantasma. Come hai scoperto Desnos?
Mi sono imbattuto nella lapide di Desnos durante una visita al campo di concentramento di Terezìn: l’epitaffio recitava “Qui giace Robert Desnos, poeta resistente”. Di lì, ho iniziato a leggerne le opere, dalle filastrocche per bambini alle poesie d’amore e ai versi sulla deportazione, fino agli scritti surrealisti. Me ne sono innamorato follemente e, più leggevo e più scoprivo, più mi sembrava di aggiungere un mattoncino alla mia storia. Un amour fou totalmente casuale per un poeta che qui in Italia è ancora troppo poco conosciuto: la sua stessa vita è stata un inno alla libertà, un pilastro da contrapporre alle vite vendute che si raccontano nei programmi tv.
L’altro grande amore cui dai spazio nel libro è quello per Milano, non semplice cornice per le storie che metti su carta, ma a tutti gli effetti protagonista…
Di questa città - le cui luci e ombre sono state già descritte benissimo in passato da Testori, Bianciardi, Jannacci, Scerbanenco, Mastronardi - dagli anni Ottanta/ Novanta in poi si è privilegiato soltanto il racconto delle luci: la Milano della bella vita, del bosco verticale, del quadrilatero della moda, del design, delle belle vetrine. Una Milano città dei vincenti, come se non esistessero le ombre. Credo che adesso questa narrazione vada totalmente ricostruita perché i milanesi non scorderanno in fretta le immagini, durante i mesi di reclusione, di quella città livida, chiusa, in cui giravano solo rider e ambulanze. La vernicetta luccicante delle apparenze si è un po’ scrostata ed è il momento di vedere se sotto c'è una narrazione credibile: rappresentare Milano solo con l’immagine delle sciure alla Scala o del designer di successo, la impoverisce anziché arricchirla.
Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2013Di
| La nave di Teseo, 2019Di
| Einaudi, 2016Dagli anni Ottanta di Milano, passiamo agli ottant’anni appena compiuti da una leggenda: per te, Bob Dylan non è semplicemente un cantante. Ma d’altra parte, nemmeno tu puoi definirti un suo semplice fan…
Già. Penso all’ultimo pezzo, Murder Most Foul, sull’assassinio di Kennedy, che ha tutta l’aria di un testamento spirituale. Molti mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per la ricorrenza, ma scrivere di Bob Dylan è davvero complesso: quale Dylan? Di quale epoca? Con la sua opera ha raccontato un’infinità di stagioni, dalla beat generation all’era di Amazon. Alla base del mio amore smisurato per Dylan credo ci sia proprio il fatto di vedere in azione un artista totalmente libero che non si è mai fatto condizionare. Ma sto ancora aspettando di fare il grande salto da appassionato a studioso…
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| Feltrinelli, 2021Di
| Feltrinelli, 2021Abbiamo parlato di arte libera e di artisti liberi: cos’ha l’arte da insegnarci ancora, oggi?
Quello che io chiedo a un artista è di farmi vedere delle cose da un'angolazione da cui non le avrei mai viste: a volte bastano pochi gradi, uno spostamento minimo, per vedere un mondo che tu non ti immaginavi o di cui non vedevi tutte le implicazioni. Questa secondo me è la libertà dell'artista, la capacità di modificare l’esistente. Come nelle strofe di Bob Dylan troviamo parole che il Monterossi non saprebbe dire, così gli artisti offrono parole e immagini che ci permettono di leggere quello che leggevamo prima in un altro modo. Poi ci sono i gusti personali, le simpatie ma, in sostanza, quando uno “muove le cose”, è mio amico.
Ben detto, Robecchi! E il Carlo – il Carlo Monterossi – è senz’altro uno che le cose le sa muovere. Non c’è da stupirsi che Robecchi gli voglia bene e che anche a noi riesca così facile volergliene. Alla prossima canzon… oops, alla prossima indagine, Monterossi!
Le nostre interviste
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I libri di Alessandro Robecchi
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