Attore, scrittore, regista, casertano doc, Enrico Ianniello calpesta i palcoscenici dei teatri con la stessa appassionata leggerezza con cui calpesta i set televisivi. Quella di Ianniello è una figura estrosa, originale, talentosa, insomma vulcanica, come sa essere la sua terra d’origine. E chi direbbe mai che con la stessa faccia prestata al Dottor Bruno Modo, splendida spalla del Commissario Ricciardi nella fiction televisiva ispirata ai romanzi di Maurizio de Giovanni, Ianniello possa portare i lettori lungo un viaggio profondo e straziante com’è quello percorso in Alfredino laggiù?
Eppure, è così. È da qui, infatti, dalla tragedia di Alfredino che Ianniello prende le mosse per costruire il suo secondo romanzo, a qualche anno dal fortunato (e bellissimo) La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin. Ma non è il fatto di cronaca in sé, quel che Ianniello vuole raccontarci. Quella di Vermicino è solo una suggestione – anche se potente, potentissima – attorno alla quale imbastire una ricognizione sul modo in cui la memoria e gli affetti di ciascuno, privatissimi e inattingibili, possano essere condizionati da ciò che accade fuori da noi e dalla nostra costellazione famigliare, portando quelle stimmate con sé attraverso gli anni.
E con dei baffi spavaldi e simpatici, retaggio di un personaggio che sta interpretando, Enrico Ianniello si presenta all’appuntamento convenuto per la nostra chiacchierata. Sorridente e sincero, aperto e spiritoso, senza paura di affrontare il dolore.
Quarant'anni dopo, un romanzo per tornare a Vermicino e riflettere su un episodio che ha cambiato la percezione pubblica del dolore...
La storia di Alfredino è in realtà un pretesto per raccontare una storia di oggi, quella di Andrea, il protagonista del romanzo; della sua storia d'amore con Teresa e dei loro due figli, Marco e Aurora. Un giorno il piccolo Marco cade e si fa male. Non è niente di grave ma, a partire da questo piccolo incidente suo padre, Andrea comincia a ricordare quella storia di quarant'anni prima. Andrea capisce che quell’avvenimento è stato per lui come “tirare il grilletto”, qualcosa che lo ha fatto uscire, definitivamente, dall'infanzia. E allora con la memoria parte per un viaggio in una terra fatta di ricordi, nel quale ritrova un Alfredino bello, vivace, allegro e questo gli fa riscoprire i tratti più luminosi della sua infanzia.
A quarant'anni dalla caduta e dalla morte di Alfredino Rampi, Enrico Ianniello torna con un romanzo intessuto di commozione all'incidente che sconvolse il Paese. Lo seguiamo fra la dispendiosa fatica del presente e il misterioso serbatoio del passato.
Di quei giorni in tanti ricordano soprattutto l'emozione. Tu ricordi come ti colpì la vicenda di Alfredino Rampi?
A quell'epoca io avevo dieci anni come Andrea, il protagonista del mio romanzo. Quello che mi colpì fu soprattutto il riflesso di quegli avvenimenti negli occhi dei miei genitori, ricordo una televisione accesa, un buco nella terra e poco altro, perché Alfredino non lo abbiamo mai visto veramente. Per me furono momenti molto importanti e che - in qualche modo - collego al terremoto dell'Irpinia, avvenuto appena qualche mese prima e di cui parlo nel mio primo romanzo, La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin. Ecco, questi due avvenimenti sono per me come i poli attraverso i quali è passata “la corrente” della mia crescita forzata.
La vicenda rappresentò uno spartiacque nel modo di fare televisione. Attorno ai tubi catodici si radunò tutta l’Italia, stretta nella commozione e nella partecipazione emotiva. Però la deriva che seguì, avrebbe potuto essere gestita meglio…
La nascita della "tv del dolore" si fa risalire proprio a qui, alla storia di Alfredino: telecamere, una diretta televisiva durata diciotto ore… Probabilmente possiamo concedere il beneficio di una certa ingenuità, in fondo era la prima volta che succedeva una cosa del genere. Ma da lì in poi, la cosiddetta "tv del dolore” è arrivata a conseguenze veramente terribili. Come scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han, siamo diventati una società "algofobica", incapace di affrontare il dolore e di trarne fuori qualcosa di buono. Mi viene sempre in mente quel famoso sketch tra Pino Daniele e Massimo Troisi, in cui Troisi dice a Pino Daniele: "Vabbe', ma tu pe' fa 'na canzone devi soffrire poco, perché 'na canzone dura due o tre minuti, io pe' fa' 'nu film, che dura due ore, devo soffrire assai!".
Visto che citi Troisi, non possiamo non fare riferimento al tuo lavoro di attore. Portare le emozioni davanti a una telecamera si lega, in qualche modo, al metterle su carta?
In realtà no: in nessun modo! A questo tipo di domanda di solito rispondevo dicendo “Il lavoro dell'attore è il lavoro di uno che è abituato a stare davanti a una fonte di luce, ad essere guardato dagli altri. Lo scrittore invece punta questo proiettore sugli altri, li osserva e dopo scrive”. Poi ho raffinato questo pensiero, ho capito che nella scrittura non c'è “l'ingombro del corpo”. Quando fai un mestiere come il mio la gente ti riconosce, conosce i tuoi personaggi. Ecco, "l’ingombro del corpo" viene prima di te. Il romanzo invece ti consente un'altra forma di relazione, molto più intima.
A proposito di riconoscere i personaggi: raccontaci qualcosa della televisione…
Vedete i miei baffi? Ecco: questi vengono proprio dalla televisione! In questi giorni sto recitando Filumena Marturano a Barcellona, in catalano, e sta avendo un grandissimo successo. Per me questa è un'occasione strepitosa perché, da napoletano, conosco Filumena Marturano come tutti i testi di Eduardo. Ma per scoprirne la bellezza bisogna uscire e tornare a guardare da un altro punto di vista.
Già: anche in televisione, potremmo dire, c’è modo e modo… e poi c’è Bruno Modo, il personaggio che interpreti nelle fiction ispirate ai romanzi di De Giovani. Come hai approcciato quel personaggio?
Bruno Modo è stata una scommessa vinta grazie a due persone: Maurizio De Giovanni e Alessandro D'Alatri, il regista della serie. Bruno Modo è un anatomopatologo, quindi uno abituato ad avere a che fare con la morte, ma nonostante questo è un tipo allegro, uno a cui piace vivere. Modo, però, è anche un antifascista e in questo senso è anche un personaggio attuale. I romanzi di De Giovanni sono ambientati negli anni Trenta, ma le cose che mi sono ritrovato a recitare, sono perfettamente aderenti anche all’oggi.
Ultima domanda. A Milano, un napoletano come te ha diverse ragioni per diffidare di qualsiasi caffè gli venga offerto… ma ci vuoi dire, esattamente, in cosa sbagliamo?!
Io vivo a Barcellona e quindi questa battaglia del caffè ho smesso di farla orma tanti anni fa. In Un passo dal cielo, un’altra serie in cui ho recitato, impersonavo il commissario Nappi, un napoletano che vive sulle Dolomiti. Nelle prime sceneggiature, Nappi si lamentava sempre del caffè e della pizza, così un giorno ho detto agli sceneggiatori “Ma questo non è napoletano... questo è scemo! sta in uno dei posti più belli della terra... e si lamenta perché non ci sta 'a pizza!”. Ma, insomma, un po’ è vero, se uno si deve prendere un buon caffè… magari qualche centinaio di chilometri in più se li deve fare!
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