La firma c'era stata il 3 di quel mese, in gran segreto, a Cassibile, una frazione di Siracusa, da cui tra l'altro prende il nome ufficiale. C'erano Eisenhower per gli Alleati e il generale Giuseppe Castellano per la parte italiana, cui era stato demandato il compito da Badoglio. L'agonia del fascismo, i bombardamenti alleati, l'incapacità di controllare una guerra che nessuno voleva più avevano portato gli alti vertici militari italiani a chiedere la resa. Appena in tempo, perché Eisenhower fermò giusto dopo la firma un bombardamento massiccio su Roma, ma una delle clausole era la segretezza dell'armistizio fino alla comunicazione da parte del generale italiano: solo allora sarebbe entrato in vigore il documento. E, inspiegabilmente, Badoglio tergiversò, tanto da indisporre gli Alleati e costringerli a proclamare loro stessi l'armistizio alle truppe arrese il 7 settembre.
Il giorno dopo, l'8 settembre 1943, in corsa, l'annuncio anche italiano, via radio, incomprensibile nei contenuti, perché ci fu chi lesse la fine della guerra e chi proprio non capì da che parte si sarebbe combattuto. Diversamente accadde per i tedeschi, più precisi e pragmatici, che in quel caos trovarono subito una rotta: gli italiani si aggiungevano ai nemici. E mentre alcuni tornavano felici a casa, abbandonate le armi, altri restavano fedeli al re, che intanto era fuggito, altri al fascismo, con i nazisti rastrellavano la penisola e portavano i disertori e i traditori nei lager. Chi resisteva veniva massacrato, come accadde a Cefalonia, dove fu annientata la Divisione Acqui, che non si era arresa ma continuava a combattere.
Da quell'8 settembre, dal caos, nacque la Resistenza, ma a caro prezzo, un prezzo che pagarono tutti, chi si arrese e chi non lo fece. Ma questa data, diventata ormai un simbolo della nostra storia, arriva alla conclusione di un processo iniziato con il 25 luglio dello stesso anno, quando Mussolini venne sollevato dall'incarico di capo del governo dal re Vittorio Emanuele: una disfatta la cui ombra lunga definì i destini dell'Italia sino alla fine della guerra.
Caro Duce, l’Italia va in tocchi…
Il 25 luglio 1943, infatti, dopo più di vent’anni di governo scellerato e arbitrario, Benito Mussolini veniva arrestato a Villa Ada, nella residenza estiva dei Savoia. Che le cose andassero male per il regime era sotto gli occhi di tutti, ma che persino il re potesse tirargli uno scherzo simile, Mussolini non se l’aspettava.
Doveva aver passato una notte insonne – il Gran consiglio del fascismo, che lui stesso aveva indetto, era cominciato il giorno prima alle sei e un quarto della sera, ma lui era rientrato alle quattro del mattino, con somma apprensione della moglie Rachele, che gli aveva tenuto da parte un piatto di brodo e qualche domanda su come fosse andata l’adunata. Niente che non potesse aspettarsi, giustappunto, forse non era neppure deluso, neppure arrabbiato: quella riunione del Gran consiglio voleva solo dimostrare che un partito esisteva ancora, che c’era coesione, nonostante tutto. Lui era il problema, lo sapeva, ma era convinto di essere anche la soluzione.
Dopo la lettura e l’approvazione dell’ordine del giorno redatto da Dino Grandi, uno dei protagonisti del governo mussoliniano che aveva agganci e influenze ovunque, l’unica speranza di Mussolini era Vittorio Emanuele III, che, però, aveva altri piani. Il Savoia era spaventato e amareggiato: aveva scommesso, come tanti italiani abbindolati e rabbiosi, sul cavallo sbagliato. Ora, mentre l'uomo cui aveva affidato il paese vent'anni prima parlava d’avvenire, lui rispondeva quasi seccato che di avvenire non se ne vedeva traccia. Nessuno, d’ora in avanti, avrebbe più combattuto per lui.
Fu in quel momento che mi accorsi di trovarmi di fronte un uomo col quale ogni ragione era impossibile
Perché, in fin dei conti, la guerra era stata una catastrofe: umana, militare e politica. L’esercito italiano non era preparato a immischiarsi in un conflitto così grande e logorante. Non lo era perché i generali erano quelli che erano, tutti boriosi e convinti che la guerra fosse già vinta, ma dai tedeschi, e che loro potessero starsene seduti a guardare. E non lo era perché gli italiani si erano resi conto piuttosto in fretta che quella guerra non aveva altro motivo che le sfrenatezze di un pazzo. C’erano poi la fame, la povertà, la paura.
Anche l’entourage di Mussolini aspettava solo l’occasione buona per chiudere con la guerra e con lui. L’uomo forte stava diventando debole – soffriva per la sua salute, sbagliava i suoi discorsi, esitava: come poteva, un uomo così, stare al comando? Il partito sarebbe sopravvissuto. Mussolini no, lui doveva cadere. E così si decise, perché il Gran consiglio votò per le sue dimissioni: lui avrebbe potuto ribaltare la sentenza, ma voleva che fosse il re a legittimare questo colpo di mano. E quando non accadde, anche lui si scoprì stanco, incapace di reagire.
Pare che i dittatori non abbiano scelta – non possono perché devono cadere –. Però la loro è una caduta che non suscita ilarità anche quando non sono più temuti, continuano ad essere odiati o amati
È vero, venne la Repubblica Sociale, ma era una animale messo all’angolo, inferocito dalla paura della fine che arrivava dal mare. Un animale malato, che rigurgitava gli ultimi vagiti di violenza e terrore – i firmatari della sfiducia al governo furono processati e condannati a morte, esecuzione che vollero più i tedeschi che Mussolini, che non ricevette mai le domande di grazia perché si aveva paura che concedesse il perdono.
Anche nella sua fine, il fascismo si dimostrò un organismo vivo, complesso e pieno di contraddizioni, tutte riassunte nell’atteggiamento dei suoi sostenitori, pavidi e aggressivi al contempo. Con la nostra selezione di saggi, tentiamo di ricostruire le cause della caduta, cominciando dalle origini di quel dramma politico che fu la dittatura con la magistrale Storia del fascismo di Emilio Gentile, sino ad arrivare agli avvenimenti che circondarono il 25 luglio 1943.
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