La fase attuale del movimento per il clima riconosce centralità assoluta al concetto di giusta transizione. Non solo in termini di pensiero e comunicazione, ma anche attraverso i soggetti che ne sono protagonisti.
Contro la transizione dall’alto, quella condotta nei luoghi di governance globale e in COP che si intende separare sempre più dalla presenza e dalle istanze della società civile, si sviluppa in Italia, e non solo, una convergenza fra movimento per il clima e movimento dei lavoratori.
Essa non si produce soltanto nelle piazze, ma anche nell’elaborazione intellettuale e politica di un pezzo importante dell’attuale classe operaia italiana: il Collettivo di fabbrica GKN.
È stato pubblicato la scorsa settimana un quaderno della Fondazione Feltrinelli dal titolo Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze. Dall’ex GKN alla fabbrica socialmente integrata. È il frutto di un lavoro di ricerca condotto da un insieme di ricercatori e docenti universitari solidali e dagli operai stessi.
Contiene due linee di proposte di reindustrializzazione orientate verso la mobilità pubblica e la sostenibilità ambientale: un modo per riempire di contenuto gli impegni di transizione ecologica (i bus elettrici o ad idrogeno, a mero titolo di esempio, da qualche parte andranno costruiti) e rimediare alla crisi dell’automotive italiano piagato da un costante processo di delocalizzazioni (le competenze per costruirli le abbiamo: perché bruciare ancora posti di lavoro?).
È anche un modo, però, di riflettere su ciò che nello stabilimento si produce: una riflessione qualitativa su “cosa, come e quanto produrre”. Certo che l’occasione per farlo, una delocalizzazione ingiustificata (o meglio mossa solo dalla sete di maggior profitto di un fondo finanziario) e quindi un licenziamento collettivo di oltre 400 dipendenti, non è delle migliori (per una storia della vertenza si veda Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo)).
Ciononostante, è proprio qui che si afferma un collegamento con un’altra importante storia operaia (sindacale e operaista) italiana. Si tratta dei conflitti sulla nocività degli anni ‘60 e ‘70, che come notano nella postfazione Emanuele Leonardi e Lorenzo Feltrin, ci mostrano “come la questione ecologica sia diventata un problema propriamente politico grazie a, e non malgrado, l’azione conflittuale del movimento operaio”.
In particolare, la riflessione condotta dai militanti di fabbrica del gruppo operaista di Porto Marghera (costruito intorno al petrolchimico della Montedison), è notevole perché valorizza, e allo stesso tempo ne evidenzia i limiti, i conflitti sulla nocività fino ad allora condotti.
Una lotta solo contro la nocività tangibile, rappresentata da fumi, esplosioni o emissioni nocive, che trascuri la ben più opprimente nocività intangibile, intrinseca al modo di produzione capitalistico, è destinata a servire involontariamente alla ristrutturazione del capitalismo stesso.
È una critica ante litteram al capitalismo green, votato alla internalizzazione del vincolo ecologico come fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione, senza mettere in alcuna discussione la priorità della produzione di valore sulla riproduzione della vita.
È il rifiuto di qualunque “monetizzazione della nocività”, come si esprimevano allora i militanti operaisti: operazione che richiama i mercati di scambio di merci-natura della transizione dall’alto, da quello delle emissioni di CO2 alle compensazioni per il consumo di suolo.
Per questo la strada di un’autovalorizzazione di classe che, accanto a rivendicazioni quantitative (riduzione dell’orario a parità di salario), affianchi una rivendicazione qualitativa di trasformazione della produzione in senso ecologico, resta la via principale per connettere i bisogni di classe con quelli dei territori in tempi segnati dall’urgenza della crisi ambientale e climatica.
Il caso Gkn dimostra che è possibile, attraverso una necessaria estensione del concetto di classe, tenere insieme i destini della classe lavoratrice in senso stretto (coattivamente legata a vendere la propria forza lavoro) e quelli di chi è parimenti costretto a forme di lavoro anche riproduttivo e alla condivisione di un determinato territorio oltre il solo luogo di lavoro.
Questo spazio così ampliato, oltre che permettere di definire veri scioperi i “climate strikes” (proprio per l’ampliamento della composizione di classe), consente di organizzare, dal basso, l’alternativa alla transizione dall’alto. Se quest’ultima è mera opera di contabilizzazione di esternalità negative a tutela dello status quo, è chiaro che sia incapace di rispondere alle esigenze delle parti di società che abitano le cosiddette “zone di sacrificio”.
La risposta, per simili territori dimenticati e le classi che li abitano, come è stato per il caso di Civitavecchia e il suo piano, frutto delle mobilitazioni popolari, di eolico off-shore per chiudere le centrali a carbone (cui può introdurre l’agile e recente testo Il vento spazza la polvere. Come liberarsi dal carbone. L'esempio di Civitavecchia), per la ex GKN di Campi Bisenzio si invera in una nazionalizzazione sotto il controllo operaio per un Polo pubblico della mobilità sostenibile.
Trattasi di una “fabbrica socialmente integrata” in cui si possa superare quel conflitto interiore di lavorare per necessità riproduttive (le stesse che portano poi al negazionismo della working class) e contribuire al contempo alla devastazione di un territorio e allo sviluppo di un settore dannoso per la crisi climatica (come è appunto quello dell’automotive).
Per smentire il giudizio che Asor Rosa, dalle pagine del Manifesto, aveva forse con troppa leggerezza espresso sui lavoratori dell’Ilva e la loro paura di perdere il lavoro, da lui mordacemente definita “alleanza tra operai e padroni” contro una cittadinanza (come se fosse soggetto altro) che difende salute e territorio. Tra le righe inoltre aggiungeva che oggi “non esiste una posizione operaia sulle questioni dell'ambiente”.
L’ambientalismo operaio oggi rivive. Contro la nocività di un ambiente di lavoro insalubre ma soprattutto contro la nocività intrinseca di un capitalismo alienante e ladro di vite. Quella che porta il poeta operaio Joseph Ponthus nel suo unico e preziosissimo libro in versi, Alla linea, a rivolgersi così a Proust «Cher Marcel, ho trovato quel che tu cercavi. Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo perduto».
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