Di Godard non c’era bisogno di amare tutto, e non era possibile capire tutto
Della scomparsa di Jean-Luc Godard si è parlato molto in questi giorni, ma l’attenzione mediatica si è concentrata soprattutto sul fatto che il grande regista francese ha deciso di andarsene con la procedura della morte assistita, non perché malato ma perché, a 91 anni, non desiderava più “andare avanti”. Ma io vorrei ricordarlo non per come è morto bensì per quello che è stato in vita: il padre della “novelle vague” del cinema francese, un autentico rivoluzionario della settima arte, un anticonformista per antonomasia, con eccessi sicuramente criticabili (come, ad un certo punto, il maoismo) che ne facevano il tipico intellettuale della rive gauche. Bastava il suo nome – Godard – a evocare un certo tipo di film (i cui autori comprendevano Francois Truffaut, Claude Chabrol, Eric Rohmer), anche tra chi poi magari le sue pellicole le conosceva poco o non le aveva neanche mai viste.
Paradossalmente, per un artista che ha avuto una così grande e lunga influenza sul cinema (al punto che Quentin Tarantino ha chiamato la propria società di produzione con il titolo di uno dei suoi film, Bande à part), le sue opere più famose sono state le prime, in bianco e nero; e la migliore in assoluto, come riconosce la maggioranza dei critici, è stata addirittura forse quella del suo esordio nel 1960, Fino all’ultimo respiro, da un soggetto del suo amico Truffaut, che è anche considerato il film migliore di Jean-Paul Belmondo, protagonista maschile accanto a una bravissima Jean Seberg: la storia dolce-amara di un ladro e truffatore e della studentessa americana che si ritrova per caso legata a lui in una breve, drammatica love-story.
Con questa opera prima, Jean-Luc Godard firma il film-manifesto della Nouvelle Vague.
Al di là della trama, questo come gli altri suoi film, in cui hanno recitato attori del calibro di Yves Montand e Brigitte Bardot, hanno lasciato il segno per il modo innovativo in cui erano girati.
“Un film deve avere un inizio, una parte centrale e una fine”, diceva Godard, “ma non necessariamente in quest’ordine”. Di Godard non c’era bisogno di amare tutto, e non era possibile capire tutto: ma è sufficiente riguardare su YouTube qualcuna delle sue scene, come quelle di Belmondo in giro per Parigi con Jean Seberg, per comprendere di essere davanti a un maestro.
Altre riflessioni di Enrico Franceschini
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