«L’insieme delle regole che disciplinano lo sfruttamento del lavoro umano in regime capitalistico», ma che al contempo disegnano anche «gli strumenti della lotta operaia contro questo sfruttamento». Infine, arbitro dei sempre precari «risultati di questa lotta» che riflettono «le modificazioni incessanti subite dal sistema di sfruttamento stesso». Così, in un lontano 1950, Gérard Lyon-Caen, tra i più autorevoli giuristi del lavoro francesi, definiva il diritto del lavoro in un noto saggio in cui ne tracciava i fondamenti storici e teorici.
In un’epoca di grande trasformazione come quella contemporanea, questa definizione resta attuale. Serve a descrivere la natura di uno strumento che, per l’essenziale conflittualità di chi ne produce le norme (dentro e fuori dal parlamento, in un binomio indissolubile tra legge e autonomia collettiva che si ravvivano vicendevolmente), è «diritto di eterno compromesso», per come ancora lo ha definito a inizio millennio Lyon-Caen.
Il nostro è un tempo definito da una globalizzazione che si afferma beyond any limit, in cui però si dovrebbe rispondere ai limiti che invece esistono e che non vanno nascosti, a partire da quelli delle disuguaglianze sociali e della crisi ambientale e climatica, messa in luce tra i primi dal rapporto su I limiti della crescita del 1972, rapidamente superato nell’immaginario comune con la controversa nozione di sviluppo sostenibile.
A rispondere a queste odierne sfide, che si intrecciano anche con la nuova organizzazione del lavoro e con la sua regolamentazione, Alain Supiot, giurista francese che ha forse tra tutti meglio interpretato la vocazione interdisciplinare del diritto del lavoro, offre la «sovranità del limite», dal titolo di una sua ricca raccolta di saggi (Mimesis, 2020). Una sovranità che si fonda sui limiti (costituzionali) e non sul «potere di decidere sullo stato di eccezione», secondo la lezione di Carl Schmitt (il Mulino, 2014). Perché, come ci ricorda l’autore nel saggio conclusivo, che dà il nome alla raccolta e che denuncia il suo debito già altrove evidente al pensiero di Simone Weil, sovrano è «colui che, essendo capace di individuare al proprio interno il suo limite, non si scontra mai con un limite a lui esterno».
In tal modo prende forma l’alternativa proposta da Supiot alla globalizzazione neoliberale, che è quella della mondializzazione. Così opponendo il cosmos al chaos, l’ordine a un disordine che va solo a beneficio di pochi, nel pensiero dell’autore emerge l’idea di salvare l’universo fisico proteggendo con principi solo apparentemente nuovi, come quello di solidarietà, l’uomo dall’incubo in cui potrebbe risvegliarsi per un illusorio utilizzo della tecnica. Assolvendo, per fare solo un esempio, allo stesso ruolo di protezione dell’uomo e del lavoratore svolto dallo Stato sociale novecentesco al tempo dell’industrializzazione e del lavoro di massa.
L’esatto contrario della strada imboccata, che tradisce peraltro il dettato della maggior parte delle costituzioni europee, dal diritto del lavoro negli ultimi decenni, che invece è quella di liberare le forze del mercato e della crescita, con ciò venendo meno alla sua essenziale vocazione di tutela della persona umana che lavora e della sua dignità nonché della considerazione dei sopravvenuti limiti climatici e ambientali.
Un rispetto del limite è però tuttora attuabile. A partire dal recupero del principio di responsabilità, antica categoria giuridica, svuotata rispetto al suo ruolo novecentesco (per cui si rimanda all’invenzione della responsabilità oggettiva e all’assicurazione obbligatoria) dagli effetti della globalizzazione sull’organizzazione dell’impresa, non più soggetta ai vincoli statuali ma in grado di imporsi nella sua dimensione multinazionale attraverso il fenomeno del law shopping: la ricerca concorrenzialmente sfrenata di contesti il più possibile liberi da imposizioni fiscali e vincoli giuridici.
Il diritto del lavoro però, anche solo nella sua dimensione nazionale e senza voler pretendere di riflettere sull’incapacità di adempiere a livello globale a quanto sancito dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944 (la Carta che ancora contiene i principi guida dell’OIL, l’Organizzazione internazionale del lavoro), può fare qualcosa. Anzitutto recuperando quella propensione all’eguaglianza sostanziale che giustifica, come nota Stefano Giubboni in un suo efficace contributo (contenuto in Il diritto del lavoro e la grande trasformazione. Valori, attori, regolazione) «un più intenso livello di correzione della strutturale asimmetria di potere contrattuale tra le parti, in vista – più in generale – di un’economia politica più egualitaria (anzitutto in termini di redistribuzione del potere sociale e del reddito), nella convinzione che ciò giovi, oltre che alla vitalità democratica delle nostre società, al mercato e allo sviluppo economico sostenibile».
Questo quindi impone la realizzazione di una effettiva e benefica democrazia economica (che sia degna erede di quella britannica dei coniugi Webbs) che passa attraverso il riconoscimento ai lavoratori e alle lavoratrici, nel tempo segnato dal grande limite della crisi climatica, anche di un più penetrante potere di decidere sull’oggetto della propria produzione, sull’impatto sociale ed ecologico dei beni prodotti e dei servizi erogati. Quello che in Italia sta avvenendo, purtroppo solo spontaneamente e dal basso, con un rinnovato ambientalismo operaio, come quello della ex-Gkn di Campi Bisenzio. Processo simile che avvicina il movimento climatico tedesco ai lavoratori del settore dei trasporti in sciopero per migliori condizioni lavorative (presupposto per un radicale ampliamento di uno dei principali strumenti per attuare la transizione ecologica della mobilità pubblica).
Se, come continua a ricordarci la celebre apertura del Digesto di Giustiniano, il diritto (ius) deriva il suo nome dalla giustizia (est a iustitia appellatum), l’orizzonte del diritto resta ineludibilmente legato, se abbandoniamo ogni insana indifferenza alle considerazioni di valore, alla dimensione della giustizia. A esso quindi il compito di regolare, restando nel purgatorio della sua mediocrità, un mondo che d’essa soffre un’assenza profonda, da colmare anche per fermare una crisi sociale e climatica senza precedenti e dagli infausti presagi.
Di
| Mimesis, 2021Di
| Carocci, 2019Ti potrebbero interessare
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