Il 10 ottobre si celebra, dal 2007, la giornata europea e mondiale contro la pena di morte e nel dicembre di quello stesso anno, venne votata la prima moratoria, proposta proprio dall’Italia, per sospendere l’applicazione della pena capitale in tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite. A quella prima votazione aderirono 99 Stati e oggi, a distanza di 16 anni, i sostenitori della nona risoluzione sono saliti a 125. Nonostante la soddisfazione per questo incremento di adesioni però, il 2022 si è chiuso con un aumento considerevole delle esecuzioni effettuate.
Nel suo report sul tema, Amnesty International ha registrato il numero più alto degli ultimi cinque anni, con 883 condanne a morte eseguite in 20 Stati, il 53% in più del 2021. Questo aumento è dipeso principalmente da tre Paesi: Arabia Saudita, in cui in un solo giorno sono state giustiziate 81 persone, Iran ed Egitto. Il numero è, tra l’altro, sottostimato perché paesi come la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam fanno ampio uso delle condanne a morte senza però comunicare i dati. Tra tutti i reati per i quali si può essere puniti con la pena capitale, quelli legati alle sostanze stupefacenti hanno subito un forte incremento nel 2022, rappresentando il 37% del totale delle esecuzioni, in palese violazione con il diritto internazionale secondo il quale la pena di morte dovrebbe essere limitata ai delitti considerati “più gravi”. Regimi sanguinari, ma anche evolute democrazie come gli Stati Uniti - in cui sono state eseguite 18 condanne a morte nel 2022 - sono accomunate dal pensiero che la pena capitale possa essere strumento efficace di repressione dei reati.
Lo scriveva Albert Camus nel suo Riflessioni sulla pena di morte, opponendosi alla giustificazione dell’esemplarità del castigo per cui “la società non si vendica, vuole solo prevenire”. E l’argomento, continua Camus, sarebbe anche convincente se non fosse che nessuno ha mai dimostrato che “la pena di morte abbia fatto indietreggiare un solo omicida deciso a esserlo”.
Nel corso della storia abbiamo avuto ghigliottine, scuri, mannaie, spade e lame affilate per eradicare il “male”, un taglio netto che non serviva solo da ammonimento, ma veniva spesso offerto come pubblico spettacolo a beneficio dei cittadini arrabbiati, affamati, spaventati. Esibizione e monito, dunque, anche se la pena capitale non ha mai funzionato da deterrente.
La permanenza della pena di morte in molti ordinamenti giuridici è solo la manifestazione più evidente di quello che, nel corso dei secoli, si è affermato relativamente ai castighi inflitti nei confronti di chi delinque. Se infatti il passaggio dalle pene corporali all’incarcerazione ha dato l’impressione di un cambiamento nel segno di una maggiore mitezza e clemenza delle punizioni concepite, la verità è che ci troviamo, in quasi ogni parte del mondo, in un sistema decisamente subdolo, in cui le pene stabilite hanno tutt’altra funzione da quella di rieducazione del condannato, come per esempio vorrebbe la nostra Costituzione.
Si tratta, in parte, dell’avvento del populismo penale per cui, soprattutto dal secondo dopo guerra in poi, la manipolazione dei fatti criminali, del loro numero e della loro portata, e delle realtà giudiziarie, ha avuto come scopo principale quello di creare consenso politico ed elettorale. E uno degli aspetti di questo populismo, che viene chiamato glamourizzazione, ci assale di continuo: true crime, serie, programmi tv in cui assistiamo a una spettacolarizzazione e drammatizzazione di fatti di cronaca nera, in cui le nostre percezioni, le nostre paure, i nostri pregiudizi vengono amplificati, e attraverso i quali diventiamo cittadini sempre meno educati a comprendere quanto la vendetta dovrebbe essere solo un umanissimo sentimento privato, e mai il faro che deve guidare l’agire pubblico e di governo.
Ragionare sulla pena di morte oggi, non è solo l’occasione per continuare la giusta campagna per la sua abolizione a livello universale, ma anche un’occasione per riflettere sulla concezione di giustizia imperante, sull’istinto di vendetta che ci viene instillato e che non riusciamo a elaborare collettivamente, sul modo in cui veniamo lasciati soli e disarmati di fronte alle nostre emozioni, utilizzate come una lama affilata contro di noi per – questa volta metaforicamente – tagliarci la testa e, con essa, ogni capacità di critica e di pensiero. E forse questo, a ben pensarci, non è meno grave di un colpo netto di ghigliottina.
Di
| Mondadori, 2018Di
| Bompiani, 2018Di
| Rizzoli, 2009Di
| CEDAM, 2020Di
| Sperling & Kupfer, 2013Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Il Saggiatore, 2013Di
| EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2015Di
| Mondadori, 2022Ti potrebbero interessare
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