Rimini è una parola ingombrante e pericolosa. Basta stamparla sulla quarta di copertina di un romanzo e il potenziale lettore immaginerà fatalmente due scenari, opposti ma inscindibili: la Rimini balneare (quella solare delle vacanze, della spiaggia, del mare, ma anche quella delle discoteche e della notte) e, almeno dal 1973, la Rimini felliniana: termine che non si riferisce all’intera opera di un grande regista dalle molte facce, ma a un suo unico film, Amarcord; a una rappresentazione nostalgica e macchiettistica, vale a dire, della piccola Rimini anteguerra.
La Rimini balneare ha, di fatto, una consistenza letteraria enormemente inferiore al suo oggetto, il grande racconto corale delle estati riminesi. Solo da qualche anno, ad opera di due giornalisti (Stefano Tura ed Enrico Franceschini) e di un umorista (Gino Vignali), si è affermato un nuovo genere letterario, il giallo balneare, forte oggi di ben otto romanzi ambientati tra Cesenatico e Rimini. Li accomuna una narrazione che del cinema ricalca le situazioni, il ritmo e il linguaggio, e che aspira a essere tradotta in film o serie televisive.
Riminese è la «tetralogia» – come si autodefinisce – di Gino Vignali (il Gino della coppia Gino e Michele) La chiave di tutto, Ci vuole orecchio, La notte rosa e Come la grandine. A indagare è la squadra mobile della questura di Rimini comandata dal vice-questore Costanza Confalonieri Bonnet, milanese aristocratica e ricchissima. Agli stereotipi del giallo televisivo (la squadra a guida femminile) si sommano quelli su Rimini e la Romagna: il Grand Hotel, Fellini, il maschio romagnolo tutta «ignoranza, sburonaggine e pataccheria» – per dirla con Paolo Cevoli –, la piadina, le mangiate a crepapelle e via dicendo.
Vignali è milanese, anche se mostra di conoscere Rimini meglio di parecchi indigeni. È un fatto, d’altra parte, che nessuno scrittore riminese si è mai misurato con la Rimini del turismo di massa. Anche l’altra faccia della Rimini balneare, quella della notte, è stata raccontata da un forestiero, il reggiano Pier Vittorio Tondelli.
Il romanzo, che si intitola tout court Rimini, è del 1985. Traumatizzata dalle famigerate mucillagini, la città stava meditando di fare a meno del mare e di rimpiazzare il tradizionale turismo balneare con il “divertimentificio”. Amava perciò presentarsi come la capitale delle mode e del loisir, degli eccessi e delle trasgressioni.
Tondelli era lo scrittore-scandalo del momento; accoppiando al proprio nome quello di Rimini, lanciava questo messaggio: uno scrittore scandaloso racconta i più intimi segreti di una città scandalosa. Era un messaggio ingannevole: Tondelli non solo non era un animatore delle notti riminesi, ma non conosceva affatto Rimini. Le sue fonti, oltre a qualche ricordo d’infanzia, erano i racconti degli amici e soprattutto i ritagli di stampa. La Rimini di Tondelli – a cui non interessava affatto l’identità profonda della città, ma la sua immagine convenzionale – coincideva insomma con lo stereotipo.
A raccontare la Rimini notturna – non quella colorata delle discoteche, ma quella del deserto invernale – ci provò nel 1994, con Animanera, il riminese Daniele Brolli. Nel romanzo si intrecciano due vicende: quella della guardia giurata Loris Fabbri, a cui tre balordi rapiscono la sorella, e quella di una coppia di serial killer che vanno eseguendo una serie di atroci delitti filmati da un regista underground.
Animanera è uno dei più genuini e radicali testi pulp italiani e la Rimini di Brolli, che al tempo faceva parte del gruppo dei “giovani cannibali”, è una città narrativamente inedita: da un lato perfettamente riconoscibile, dall’altro sfigurata da un make-up splatter che ne stravolge i connotati.
L’immaginario “felliniano” accomuna varie opere, perlopiù autobiografiche, di autori locali. L’espressione letteraria più alta è Romanza di Sergio Zavoli, pubblicata nel 1987, e cioè quindici anni dopo l’uscita di Amarcord, ma che rimanda chiaramente al film anche per gli stereotipi che vi ricorrono: i compagni di scuola, i buchi nei capanni, le ospiti della casa di tolleranza, le macchiette, i “birri”, eccetera.
A dispetto del gioco di parole, Romanza non è un romanzo, ma un album di ricordi. Non un’autobiografia in senso stretto, ma qualcosa di meno e qualcosa di più: un’appassionata dichiarazione d’amore alla città, ai suoi luoghi, alla sua gente e innanzi tutto agli amici riminesi.
Celiando un po’, potremmo definire “neofelliniana” la Rimini di Marco Missiroli, che alla sua città natale si è avvicinato con circospezione. Solo nel suo quarto romanzo, Il senso dell’elefante, compare Rimini, città d’origine del protagonista. In Fedeltà è la città di un personaggio secondario. Mentre l’ultimo romanzo, Avere tutto, è proprio ambientato a Rimini.
Quella di Missiroli è una Rimini privata, con una topografia sentimentale fatta di itinerari che partono tutti dall’Ina-Casa, dove Missiroli abitava, per approdare alla spiaggia, al borgo San Giuliano, alla pizzeria a Rivabella, alla trattoria Renzi alla Canonica per le tagliatelle, la faraona, i gratinati e la piada. Una Rimini intima e provinciale che si contrappone alla metropoli, Milano, e che anche per questo è a suo modo felliniana (non per caso Fedeltà si conclude alla tomba di Fellini, al cimitero).
Per sfuggire sia allo scenario balneare che a quello felliniano (e ai relativi stereotipi), una possibile soluzione è inventarsi una Rimini tanto anticonvenzionale da risultare quasi irriconoscibile. È ciò che ha fatto Michele Marziani con il suo romanzo Barafonda, che del quartiere di San Giuliano Mare conserva appena qualche elemento del paesaggio (il fiume, il mare) e la denominazione popolare.
Quanto a me, quattro dei miei cinque romanzi sono ambientati indubitabilmente a Rimini, anche se in altri secoli, ma il nome della città è fatto solo in uno, Italia. Poiché non hanno niente a che vedere né col turismo né con Fellini, l’identità della città è stata prudentemente celata ai lettori; per quelli riminesi è il segreto di Pulcinella.
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