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Un ministro come Bobo

Martedì 23 novembre

Dispiacere, commozione, ammirazione per come ha sopportato la malattia che lo ha colpito ancora giovane: queste le prime reazioni alla notizia della morte di Roberto Maroni (per tutti Bobo), che ha attraversato da protagonista gli ultimi trent’anni di politica italiana, conosciuto prima come “il numero due di Bossi” e poi, quando il Senatur fu travolto da uno scandalo di malcostume, “il successore di Bossi”. Con una caratteristica: mai alzato la voce, mai gridato “la lega ce l’ha duro”, mai minacciato secessioni.
Non era nelle sue corde, era piuttosto la persona più adatta ai tempi lunghi, all’eufemismo, alla trattativa.

Della sua vita, la parte più agitata e veloce fu la giovinezza.
Nato a Lozza, provincia di Varese nel 1955, studente del Liceo Cairoli, affascinato dal solito professore di fiosofia che gli parla del marxismo, Bobo partecipa al movimento studentesco e poi alla militanza politica con il “Gruppo Gramsci”, uno dei tanti frammenti gruppuscolari dell’epoca, che, nel 1976, aderisce al cartello elettorale di Democrazia Proletaria.
I risultati elettorali di DP furono di molto inferiori alle aspettative di tanti Bobos ("bourgeois-bohémien") che immaginavano una lunga e pacifica marcia della rivoluzione dentro il parlamento.

Delusione, depressione, ma per fortuna arrivò a Varese, nel suo tour da pellegrino, un certo Umberto Bossi a parlare di autonomismo, di nord, di radici celtiche.
Era convincente, tanto che Bobo aderì – era diventato nel frattempo un giovane avvocato  - e portò competenza ed entusiamo. Era nata "la Lega”, alla fine degli anni Ottanta era già un fenomeno sociale importante in Lombardia e Veneto; per le elezioni del 1994 era nato anche un altro partito, Forza Italia, e al sud era cresciuto il vecchio MSI, che aveva cambiato nome in Alleanza Nazionale. I tre partiti messi insieme, come si ricorderà, vinsero a sorpresa le elezioni, finì la prima repubblica nel segno della corruzione e Silvio Berlusconi diventò presidente del Consiglio. I crateri delle bombe di Palermo, Firenze, Milano, Roma erano ancora caldi, la mafia siciliana colpita a fondo, avrebbe reagito con ferocia ancora maggiore?

In questa situazione, il posto più caldo da occupare era sicuramente quello di ministro dell’Interno. E venne nominato Bobo Maroni, che passerà alla storia del Viminale come il primo ministro non democristiano chiamato a governare la polizia, l’ordine pubblico, la sicurezza, i servizi segreti, la lotta alla mafia, che a quei tempi era al numero uno della lista.

La situazione era – a dir poco – tesa e pericolosa. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, aveva rifiutato come ministro della Giustizia Cesare Previti, avvocato di Berlusconi.
Al suo posto era stato nominato Alfredo Biondi, altro avvocato, che aveva sfornato un decreto “salva-ladri” (e salva-mafiosi), che Bobo aveva approvato; era successa una mezza rivoluzione, capeggiata dai magistrati della procura di Milano. Bobo confessò di aver firmato senza sapere che cosa stava firmando, perché era troppo occupato a seguire i mondiali di calcio (Bobo era un grande tifoso del Milan, peraltro; ed era rimasto un ragazzo di provincia che quasi svenne quando Berlusconi, ad Arcore, gli fece prendere in mano la Coppa dei Campioni vinta dalla sua squadra).

Il decreto venne ritirato; la polizia, nel frattempo era in agitazione sindacale: richieste di salario, di dotazioni per la lotta alla criminalità.
I poliziotti sfilarono, in divisa, nel centro di Roma e quando passarono davanti al palazzo del Viminale, lo slogan più  gridato era: “Maroni, Maroni, arresta Berlusconi!

Maroni, ovviamente non lo fece. Ci pensò il Senatur a farlo cadere, indicandolo in parlamento come il capo della mafia….

Così finì la prima avventura di Bobo Maroni nei palazzi del potere italiano. Altre ne sarebbero seguite, ma surreali come quella, nessuna.

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