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Migranti: lo stato dei Cpr in Italia

L’ispezione a sorpresa della Guardia di finanza all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli, a Milano, ha portato i pubblici ministeri a formulare una richiesta di commissariamento immediato. Le condizioni delle persone trattenute in quel luogo sono state considerate al limite dell’umano: cibo fetido e avariato, locali sporchi, gravi carenze dal punto di vista dell’assistenza sanitaria e nessuna attività ricreativa prevista. La società che gestisce il centro per conto della Prefettura di Milano aveva vinto lo scorso anno un appalto di oltre 4 milioni di euro per dodici mesi, e ora è indagata per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta. Pare che, oltre alla scarsa cura nei confronti delle persone trattenute, siano state individuate irregolarità nei pagamenti dei collaboratori e finte convenzioni con enti che avrebbero dovuto garantire servizi aggiuntivi, mai erogati.

Da quando il Governo in carica ha stanziato fondi in bilancio per la costruzione di un Cpr in ogni regione – 20 milioni solo per il 2023 – si è ricominciato a parlare di questi luoghi, complice anche l’accordo con il primo ministro Edi Rama per la creazione di centri simili in Albania (di cui abbiamo parlato nel nostro precedente articolo) gestiti e pagati dal nostro paese. I Cpr però, sono storia vecchia. Istituiti dalla legge Turco-Napolitano sull’immigrazione nel 1998, hanno compiuto 25 anni. Voluti dall’Europa, in cui esistono centri simili, nascono allo scopo di trattenere persone prive di un documento valido per il soggiorno nel territorio europeo. Hanno cambiato molti nomi nel corso degli anni, ma mai la sostanza di ciò che sono. Attualmente abbiamo dieci Cpr in otto regioni italiane, con una capienza potenziale di 1.338 posti, di cui solo 619 effettivamente utilizzabili. Le proteste sono assai frequenti, e incendi o distruzioni di intere sezioni provocano spesso la chiusura totale o parziale di alcuni di questi centri.

In un report del luglio 2023 pubblicato da Actionaid e dall’Università di Bari si evidenzia come dei quasi 15 milioni spesi per la manutenzione dei Cpr nel periodo 2018-2021, il 62% è relativo a interventi di manutenzione straordinaria. Le forme di protesta, però, non si limitano a prendere di mira le strutture, e anzi le modalità più comuni riguardano quelle che hanno per oggetto il proprio corpo: varie forme di autolesionismo individuale o collettivo, come scioperi della fame e delle medicine o la protesta delle bocche cucite, un episodio del dicembre 2013 avvenuto al Centro per i rimpatri di Roma, in cui una decina di uomini si sono sigillati le labbra con ago e filo. Parlando con le persone trattenute in quei luoghi, una delle cose che più stupisce è la difficoltà che hanno di comprendere in che posto si trovano, e perché.

A volte il trattenimento arriva dopo aver scontato una condanna in carcere (e sono proprio loro a dire che in carcere si stava meglio), ma non è difficile incontrare persone incappate in una sorta di lotteria della sfortuna. È il caso di una donna russa incontrata qualche anno fa, che mi ha raccontato di essere entrata in un Cpr già una decina di volte: impossibile da rimpatriare, dopo ogni espulsione e successivo trattenimento ricominciava dal punto di partenza. Ho incontrato anche molte donne dell’Europa dell’est, in Italia da anni per svolgere vari lavori di cura, che avevano perso il permesso di soggiorno dopo la morte dell’ultima persona anziana assistita: non avendo trovato nei tempi dettati dalla legge un altro impiego con regolare contratto, sono state rinchiuse.

Ricordo una visita ispettiva nel Cpr di Bari, dove sono entrata con una delegazione della Commissione diritti umani del Senato. Mentre ci troviamo in uno dei moduli di detenzione a parlare con i trattenuti, sento la voce di un ragazzo con un fortissimo accento bresciano. Mi giro un po’ stupita e no, non era uno degli operatori della cooperativa, ma un giovane di poco più di vent’anni di origine tunisina, nato qui ma senza tutti i passaggi necessari per regolarizzare definitivamente la sua posizione. Senza conoscere nessun’altra lingua se non l’italiano, stava per essere rimpatriato in un posto in cui non aveva mai vissuto e dove non conosceva nessuno.

Sarebbero decine le storie da raccontare, e forse tutte insieme potrebbero aiutare a comporre il quadro dell’inutilità dei Cpr e dell’afflizione vissuta nei luoghi di detenzione amministrativa, una detenzione che non ha nulla a che vedere con i reati commessi, ma solo con la regolarità dei propri documenti. La percentuale dei rimpatri non è mai stata superiore al 50% dei trattenuti e quando, come in questo momento, il tempo massimo di permanenza è stato aumentato fino a 18 mesi, questo ha provocato solo più sofferenza alle persone, e mai un maggior risultato in termini di espulsioni. I Cpr sono la maschera dietro la quale nascondiamo il fallimento del nostro approccio alle migrazioni e che possiamo sbandierare quando abbiamo bisogno di dichiararci inflessibili. Tutta comunicazione insomma, e nemmeno un briciolo di sostanza. Sulla pelle di qualche centinaia di persone l’anno, e per giunta con i nostri soldi.

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