In queste settimane, all’interno della cornice della campagna End Fossil - Occupy, si sono organizzate in molti paesi europei occupazioni universitarie – in Italia è partita per prima Pisa seguita poi dalla Sapienza di Roma e dall’Università di Torino – che mettono al centro una gravissima contraddizione delle istituzioni accademiche (e non solo). Si tratta dello stretto rapporto che lega molte università a un particolare tipo di interessi privati: quelli delle società che operano all’interno del settore dei combustibili fossili. In Italia una su tutte, la ben nota Eni.
Eni mette le zampe sull’università
Tutte le società petrolifere come Eni hanno infatti bisogno di costruire una propria reputazione e legittimità sociale, che gli permetta di continuare le proprie attività di distruzione climatica e ambientale e di impoverimento sociale, rimanendo impunite.
La presenza di Eni nelle università, come efficacemente esposto in un recente report realizzato da ReCommon e da Greenpeace, assume molte forme: accordi di ricerca congiunti, partenariati nell’organizzazione di master e corsi di laurea (soprattutto materie Stem), comitati di indirizzo dei singoli corsi di laurea, acquisto di ricerche e brevetti e finanziamento di borse di dottorato. Accanto a questa presenza strutturale, vediamo Eni entrare nelle Università con «career days», premi alla ricerca e seminari. In generale, secondo l’inchiesta su citata, 36 università su 66 contattate, più di una su due (di quelle che hanno risposto, quindi numero possibilmente più alto) dichiara di avere dei rapporti con Eni di finanziamento, accordi, patrocini o collaborazioni strutturali.
Dieci milioni di euro per le università italiane, questa è la cifra a cui ammontano i finanziamenti di Eni secondo il suo bilancio, sono giusto qualche briciola rispetto al budget complessivo dell’istruzione universitaria. Se però anche solo per delle briciole esse accettano di limitare la propria libertà di ricerca e di didattica significa che da un lato la responsabilità è anche del definanziamento pubblico che può renderlo, in alcuni frangenti, necessario, ma dall’altro molto è dovuto a un contesto culturale e politico che favorisce il proliferare di questa forma di legittimazione del capitalismo fossile, spesso anche sostenendo da parte del corpo docente la necessità di offrire buoni posti di lavoro (grigi e non verdi, però) a studenti e studentesse. La solita università azienda.
Perché partire dalle università?
La permeabilità dell’università all’influenza dei colossi del fossile è preoccupante anche per un altro motivo. Essa cessa così infatti di essere il luogo libero che la nostra Costituzione definisce, senza separarla dalla scuola come luogo superiore abilitante un'élite di professionisti, ma legandola a essa come il prolungamento del luogo pubblico ove si formano i cittadini (prima che le professionalità più ricercate sul mercato del lavoro). Gli interessi privati, e questo quindi non vale solo per quelli legati all’industria fossile, dovrebbero stare al di fuori dai luoghi della conoscenza. Senza dimenticare inoltre che le multinazionale del fossile, oltre ad essere responsabili della maggior parte delle emissioni storiche globali, sono anche state (e lo rimangono spesso tuttora) le finanziatrici di gran parte del negazionismo climatico, come viene ampiamente ricostruito da Stella Levantesi in I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo. Una solida conoscenza, già acquisita negli anni ‘70, degli effetti negativi sul clima dei combustibili fossili è stata provata anche in Eni da una recente inchiesta realizzata da Greenpeace Italia e ReCommon.
Un libro imprescindibile per chiunque voglia finalmente sapere come sia potuta riuscire l’operazione di occultamento più grande del secolo: quella orchestrata dai negazionisti dell’emergenza climatica.
Di fronte alla crisi climatica che avanza, l’unica risposta assunta dai poteri economici e politici, colossi del fossile compresi, è il cosiddetto «negazionismo di secondo tipo», per riprendere una felice nozione recentemente introdotta da Marco Deriu. Trattasi «dell’atteggiamento cognitivo e politico di coloro che non negano il cambiamento climatico e la sua gravità come fatto in sé, ma poi si limitano a considerare solamente azioni e interventi di tipo tecnologico, economico, di mercato, completamente inappropriati o visibilmente fuori misura rispetto alla radicalità della sfida climatica ed ecologica». Un ritratto che rispecchia fedelmente l’operato di chi, come Eni, continua a investire miliardi in esplorazione di nuovi giacimenti promuovendo però un’immagine di sé rivolta a contrastare la crisi climatica, attraverso scarsi investimenti in rinnovabili e soluzioni insufficienti e pericolose come le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO₂, il cui presunto ruolo nel arrivare all’azzeramento delle emissioni viene messo efficacemente in luce in Ending Fossil Fuels. Why Net Zero Is Not Enough di Holly Jean Buck.
L’Università nella sfida della transizione ecologica deve rappresentare un’alternativa a quello che accade nei palazzi di potere. Deve ricordarsi di essere molto più legata alla piazza (di cui è simbolicamente un prolungamento) che ai luoghi in cui si decide in modo sbagliato e interessato della sorte dei popoli. Deve restare lo spazio libero in cui poter acquisire una cultura intesa come pensiero critico: lo strumento, come diceva Claudio Abbado, che permette di distinguere bene e male e di giudicare chi ci governa. Il tempo è poco, il rischio di cadere prima di averci provato altissimo. Confortati dall'Ipcc possiamo già dire di non avere più nulla da perdere. Prima che sia troppo tardi la creazione di consenso sull’urgenza di una mobilitazione collettiva deve restare la priorità di un movimento ecologista sempre più unito. In questo tentativo non si può prescindere da un’università libera che guidi ciò che accade al suo esterno piuttosto che esserne surrettiziamente guidata.
Di
| Laterza, 2021Di
| Orthotes, 2023Di
| Castelvecchi, 2022Ti potrebbero interessare
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