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Accordo tra Italia e Albania sui migranti: tutti i ragionevoli dubbi sui cpr

È di questi giorni la notizia di un accordo tra la presidente del consiglio Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama per la costruzione di due centri di detenzione in Albania che dovrebbero “ospitare” – le virgolette sono d’obbligo – migranti soccorsi in mare dalle autorità italiane. La pubblicazione del testo del protocollo ha chiarito i contorni del progetto, ma non è riuscita a dissipare i dubbi rispetto a cosa saranno questi luoghi e a come funzioneranno. Innanzitutto, non saranno destinati a minori, donne in gravidanza e a soggetti fragili, ma a quelle persone che, la maggioranza al di fuori di queste categorie, provengono da nazioni il cui tasso di non accoglimento della domanda di protezione è molto alto.

Si pone, però, un primo problema: una volta salvati i naufraghi dal Mediterraneo, come e da chi verrà fatta questa “selezione”? E chi verrà fatto sbarcare prima? Le persone che in funzione del loro status hanno il privilegio di poter arrivare in Italia, o chi tra loro consegneremo all’Albania? Senza volere entrare nei dettagli, che ancora non si conoscono, anche solo calcolare le distanze, e quindi contare i chilometri della tratta aggiuntiva necessaria per raggiungere l’Albania, dà la misura di quanto questo progetto sembri, oltre che logisticamente non ben congegnato, anche particolarmente afflittivo per chi sarà costretto a giorni di navigazione aggiuntiva, senza contare il trattamento loro riservato una volta giunti a destinazione.

Nell’accordo si legge che la costruzione delle strutture, il personale di vigilanza, gli operatori e persino l’assistenza sanitaria saranno forniti dall’Italia, calibrando i servizi sulla previsione massima di 3.000 migranti presenti contemporaneamente sul territorio albanese. Nel corso del periodo di permanenza all’interno di questi centri deve essere valutata la richiesta d’asilo e, in caso di diniego, le persone devono essere espulse. Ma se non ci fosse modo di rimpatriarle, dove andrebbero a finire? La risposta potrebbe suscitare ilarità, se non fosse che di mezzo c’è la vita di persone e non di pacchi postali: verrebbero rispediti in Italia.

Senza nemmeno evocare tutti i possibili profili di illiceità di questo accordo, sarebbe importante anche solo rispondere a un paio di domande: se le persone salgono a bordo di navi italiane, e si trovano quindi su territorio italiano, come è possibile pensare poi di portarle in un altro paese che non fa nemmeno parte dell’Unione europea? Chi valuterà le loro domande di protezione e che possibilità avranno di accedere alle garanzie previste dalla nostra legge per chi è privato della libertà, come la nomina di un avvocato? Se al momento non abbiamo risposte, possiamo però inquadrare l’accordo in un più ampio disegno politico questo sì, estremamente chiaro. L’intesa tra Italia e Albania arriva a poche settimane dall’annuncio della costruzione di nuovi Centri di permanenza per i rimpatri – almeno uno per ogni regione!, è la richiesta a gran voce – e dalla modifica normativa che ha nuovamente allungato i tempi di trattenimento, portandoli da tre a diciotto mesi.

Mi è capitato spesso, per lavoro, di entrare nei Cpr. La prima volta che ne ho visitato uno si chiamavano ancora Centri di identificazione ed espulsione, e nonostante i cambi di nome e di acronimi, la sostanza è rimasta sempre la stessa. Nelle intenzioni, nelle modalità di trattenimento, nell’ideazione degli spazi, nulla del senso e dello scopo di quei luoghi è mutato. Da quando sono stati introdotti nella legge Turco-Napolitano del 1998, hanno rappresentato (attenzione) un fallimentare tentativo di effettuare espulsioni di cittadini privi di permesso di soggiorno. Da ormai venticinque anni i dati ci raccontano la stessa implacabile verità: le espulsioni non raggiungono il 50% di tutte le persone trattenute, e se non si riesce a organizzare il rimpatrio entro le prime settimane, significa che quel rimpatrio non si farà mai.

Provare a raccontare quei posti, e a farli visualizzare a chi legge, non è affatto facile.

Stratificazioni di cancelli, sbarre, corridoi e reti sulla testa, non si può avere un telefono cellulare, non si può cucinare – ti devi accontentare di ditte che preparano per te sempre le stesse cose per settimane e mesi - non si può acquistare nulla dall’esterno, a parte poco più che il thè o il caffè della macchinetta. Negli anni i servizi offerti sono stati ridotti, non ci sono più i fondi per il cosiddetto pocket money, quindi anche comprarsi le sigarette è un problema. E attenzione, quando ci si riferisce a loro come “trattenuti” non si utilizza un termine a caso: formalmente per la legge non sono persone detenute, non si trovano lì perché hanno compiuto un reato, e se riescono a scappare non possono essere accusate di evasione. Che posti sono quindi? Sono posti all’interno dei quali ho visto decine di donne nigeriane portate tutte insieme direttamente dallo sbarco, in cui ho assistito alla protesta di giovanissimi uomini tunisini che si sono cuciti la bocca con ago e filo, in cui ho conosciute ragazze rom appena diciottenni, nate in Italia, ma senza permesso di soggiorno, in attesa di essere rimpatriate in un Paese che non avevano mai visto.

Cosa cambia quindi tra i Cpr e i centri che il Governo vuole costruire in Albania? Forse l’unica differenza è che nel nostro paese ancora li possiamo vedere e raccontare, per il resto sono luoghi di afflizione fine a sé stessa, buoni solo a sbandierare pubblicamente un’efficienza che crea tanto consenso, ma che è perfettamente inutile rispetto ai risultati promessi. Le persone non si rimpatriano rinchiudendole nei Cpr, e non si rimpatrieranno portandole in Albania. Constatare quanto diventa sempre più facile accettare luoghi come i Cpr, decidere di non vedere cosa accade nei centri di detenzione in Libia, ipotizzare di costruire filiali del trattenimento in Albania, questo sì che dovrebbe smuoverci. Perché chissà quale sarà l’abominio di cui saremo capaci la prossima volta.

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