Il meteorite non sta cadendo. È caduto
E infatti lo vedi lì, con una sua epica quotidiana e ordinaria – felpa, jeans e mani in tasca, con l’espressione di chi vorrebbe essere ovunque tranne che di fronte a una frotta di giornalisti –, Zerocalcare: davanti a un grosso meteorite rosso circondato dalle fiamme che piove su una città. Disegnato, si capisce. La sua mostra, Dopo il botto, dal 17 dicembre al 23 aprile alla Fabbrica del Vapore di Milano, infatti, ci vuole dire proprio questo: è esploso tutto, siamo circondati da una specie di apocalisse. Potrebbe essere il momento del panico, del cinismo e della rassegnazione, e invece è l’opposto, perché le oltre 500 tavole presenti nella «cattedrale laica» dell’esposizione raccontano di reazioni e ribellioni a quel che succede fuori e dentro.
Giulia Ferracci, curatrice della mostra che ha ideato disposizione e senso, sa che queste tavole, corredate dalle parole – che non sono affatto secondarie – sono armi, sono contundenti. Sono strumenti per tentare di capire, anche se non pretendono di farlo totalmente, il presente che ci circonda, che sembra diventato un po’ distopico, e invece è qui e ora, davanti ai nostri occhi. Ma non è una comprensione semplice e pacifica. Sono armi, queste tavole, che prima di tutto hanno un violento rinculo: interrogano noi per primi che questo tempo abbiamo sempre cercato di capire e di analizzare.
L’obiettivo della mostra è quello di dare conto dell’espressione più autentica di Zerocalcare, di raccontare, quindi, tutto ciò che è Michele Rech
Qui c’è tutto Zerocalcare, dal suo privato al più collettivo, dalle tavole più intime che rappresentano i mostri coinquilini con cui condivide ogni aspetto della sua vita – anche i pangoccioli – a quelle più militanti che inchiodano il G8 di Genova del 2001, il fascismo, gli abusi di potere. Al centro della mostra, al centro fisico, intendo, c’è una piazza, ed è lì che è caduto il meteorite. Nonostante questo, però, è sempre una piazza, cioè luogo di ritrovo, di mostri e di esseri umani: da lì, da questi palazzi da cui sbucano tentacoli e zanne e sui cui tetti si sono abbarbicati i sopravvissuti, si comincia. Nell’ala nord del salone ci sono i disegni più personali, le lotte quotidiane, ordinarie; in quella sud ci sono le lotte collettive.
Lotte che, ci tiene a precisare Zero, sono state anche pensate e concepite grazie alla relazione con gli altri. Da un lato, un mondo densamente emotivo, dall’altro il mondo che resiste ai soprusi e all’ingiustizia. La piazza è il loro luogo di incontro. Ci sono anche i santi protettori del fumettista, quelli che abbiamo imparato ad amare con i suoi graphic novel e la serie Netflix: Lady Cocca, il t-rex, Kurt Cobain, Gaetano Bresci.
Chi poi si trova a leggere le mie cose in qualche modo pensa che le cose mie gli parlano, e sono persone non necessariamente della mia generazione o che non hanno la mia stessa origine geografica e sociale, ma sono persone che in qualche modo condividono il senso di inadeguatezza verso ciò che gli sta intorno
Nonostante il meteorite, nonostante l’apocalisse, quindi, c’è tutto. Tutto Zerocalcare, tutto ciò che è sta succedendo nel nostro mondo un po’ claudicante dopo l’impatto. Quel che è sopravvissuto – e che deve sopravvivere – è qui, in questo percorso, tra armadilli e galline e amici che ci hanno insegnato la filosofia del «s’annamo a pija’ n’ gelato?» Non l’ha fatto da solo, Zero, ed è il senso di questa mostra: c’è stato un lavoro collettivo, a partire dalla curatrice Ferracci, a Minimondi, alla città di Milano – i cui abitanti sono lettori molto attenti di Zerocalcare –, fino a coloro che hanno concepito le idee di cui le tavole sono solo il punto d’arrivo.
È stato come quando le guardie ti fermano e ti chiedono di tirare fuori il fumo se ce l’hai, perché se lo trovano loro è peggio. Allora io ho fatto così: ho tirato fuori tutto di me prima che lo trovasse qualcun altro, che poi era peggio
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