La prima volta che sono stata a Parigi ho mentito.
Ho detto di esserci stata da piccola e di aver dimenticato, ma la verità è che durante la mia infanzia ho visto Nizza, Cannes, Montpellier, Antibes, Perpignan, Sète e Marsiglia. Ricordo quei luoghi come può farlo una bambina ma... no, non sono mai stata a Parigi, da piccola.
Malika: "Sindi, questo fa di me un impostore indipendentemente da te, corretto?"
Sindi: "Non lo so. Cosa ti ha detto Serge quella volta?"
Malika: "Come sai che ho parlato con Serge?"
Sindi: "La prima volta a Parigi, è impossibile tu non abbia parlato con Serge."
Malika: "In effetti, quel giorno - penso fosse martedì - Serge mi ha detto che un suo album in vinile costa circa 500 euro."
Sindi: "E tu cosa hai imparato da quell’esperienza?"
Malika: "Che la musica migliore di Serge la ascoltiamo in pochi ma il suo mito ne giustifica il costo, sia per gli appassionati che per le memorie limitate."
Sindi: "... e Parigi? cosa hai imparato, su Parigi?"
Malika: "Che posso svuotare una carta di credito in due ore per senso di colpa, scherzo o miracolo tra dischi, vestiti e un paio di scarpe verdi che non ho idea di dove siano finite."
Sindi: "Oggi come va?"
Malika: "Oggi non mi ricordo quante volte sono stata a Parigi da allora ma mi ci sento a casa."
Nel mio girare confuso tra Belleville, Republic, Ourcq, St. Germain, ho visto che uomini, donne, ragazzi e bambini girano con le cuffie in testa. Gente a piedi, gente in metro, gente in bici, in taxi: tutti dentro la propria bolla invisibile.
Nelle auto non saprei, non ho notato la gente alla guida.
Perché il traffico a Parigi ha una forma che mi ricorda quei giochi per bambini in cui le palline scendono lungo una sorta di labirinto verticale per poi finire sempre con l’ingolfarsi nella stessa fessura.
La mia auto non è una bolla, piuttosto un’isola: può sbarcare solo chi voglio io e deve rispettare delle regole precise (come, ad esempio, non pensare nemmeno di poter scegliere la musica che ascolteremo durante il viaggio).
La mia stanza d’hotel invece sì, è una bolla. E nella mia bolla sto con le cuffie in testa spostandomi di bolla in bolla, viaggiando su una bolla.
Come nascosta nel fondo di una caverna, però al caldo, sotto le coperte o rimbalzando tra letto, finestra e bagno.
Mi sento nel tuorlo di un uovo à la coque appena prima di essere tolto dall’acqua bollente.
Mi chiedo se stare in una bolla, nella propria bolla, se avere le cuffie grandi attorno alla testa o quelle piccole nelle orecchie serva a isolarsi dall’esterno, a difendersi da minacce aliene o a guardare più da vicino, focalizzandosi su dettagli che altrimenti risulterebbero impercettibili.
Per le stelle esistono i telescopi, per le cose piccolissime i microscopi. Per i suoni le cuffie.
Mi perdonino i signori monoteisti dell’hi-fi ma quando guardo un DJ smanettare su un mixer mentre nelle orecchie ha già il disegno che sarà la bolla successiva in cui infilare tutte le persone che ha davanti, mi emoziono e mi lascio portare come solo posso fare alle giostre perché sono legata, perché so che non può succedermi nulla.
Mi chiedo se le bolle possano fondersi e integrarsi, come gli insiemi.
Perché quella volta sulla 91 ascoltavo i Guns a un volume troppo alto per le mie cuffiette da diecimila lire e la ragazza di fronte a me si è messa a cantare il ritornello di Anything goes. Un po' mi sono vergognata, un po' mi sono sentita figa, un po' mi sentivo disturbata nella mia bolla.
Ieri sera, invece, ascoltando il risultato del lavoro in studio mi sono accorta che dal balcone di fronte un uomo mi guardava ballare.
Gli ho sorriso. Mi ha sorriso a sua volta. Abbiamo dato un senso al mio buco di soffitta a Belleville.
La stessa canzone l’ho ascoltata poi per tutto il volo di ritorno. A destra, un tramonto da togliere il fiato, a sinistra le alpi innevate.
In mezzo io, comoda, nella mia bolla.
The best is yet to come.
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