Il profeta di Kahlil Gibran è uno di quei libri da avere sugli scaffali di casa, da leggere, rileggere e riaprire all’occorrenza. Poco più di 90 pagine cariche di sapere e saggezza, che a distanza di un secolo (l’opera è stata pubblicata per la prima volta nel 1923) intercettano ancora i dubbi e le domande dei suoi lettori.
Dopo alcuni anni trascorsi in terra straniera, Almustafa (ovvero l'eletto di Dio), sente che è giunto il momento di fare ritorno all'isola nativa. In procinto di salpare egli affida al popolo della città di Orphalese un prezioso testamento spirituale: una serie di riposte intorno ai grandi temi della vita e della morte, dell'amore e della fede, del bene e del male.
Questo perché nelle agili risposte che il Profeta Almustafa rivolge ai suoi compaesani, i loro problemi quotidiani nascondono, in fondo, le grandi paure esistenziali degli esseri uomini: attraverso la commistione di prosa e poesia, il Profeta dà così vita a un testamento spirituale sui grandi temi della vita e della morte, dell’amore e della fede, della mente e della natura.
Nessun credo o filosofia specifici di riferimento, solo la potenza delle analogie e delle metafore che colpiscono il lettore con immediatezza, conferendo un’aura di veridicità alle parole del poeta libanese.
Il libro di Kahlil Gibran ci è stato consigliato da un grande fotografo, Steve McCurry, che abbiamo avuto l’onore di intervistare due mesi fa, in occasione dell’uscita della sua ultima raccolta di opere Devotion. Amore e spiritualità, pubblicato da Mondadori Electa. McCurry ha definito Il profeta uno dei libri più importanti della sua vita, profondo e acuto, un dolce rifugio per i lettori di ogni età.
Credo che ci sia un’analogia tra questi due mezzi di espressione, il racconto del mondo del fotografo e del poeta è distante ma complementare: da una parte la vista che colpisce e smuove corde difficili da restituire in parole, dall’altra la poesia che non può esser diversa da quella precisa concatenazione di termini e anch’essa, se spiegata in prosa (nel senso letterale di distendere il testo secondo un senso più immediatamente logico), perde ogni poetica, insieme al suo significato essenziale.
Che si scriva o che si legga, che si scatti o che si osservi, in entrambi i casi è questione di pazienza, di esercizio, di aprirsi all’ascolto per accogliere quei messaggi o quelle sonorità più alte; in poche parole è questione di devozione.
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