«È giusto dire che il messaggio di questo libro è incredibilmente cupo», scrive l’austriaco Walter Scheidel intorno alla pagina 500 di La grande livellatrice, con apprezzabile sincerità (e una punta di sadismo). Concordo: ho chiuso il monumentale libro del 2017, uscito quest’anno in edizione economica, a oggi lo studio più ampio sulla storia delle disuguaglianze economiche, con un senso di vertigine e molta preoccupazione, ma ho deciso di consigliarvelo proprio per questo (senza sadismo, giuro) – perché quella che ti lascia addosso è un’inquietudine sana, del tipo che ti spinge a volerne sapere di più, per capire meglio e magari immaginare come diavolo ne usciamo.
Da sempre gli esseri umani mettono in atto una ripartizione squilibrata delle risorse, concentrando il reddito nella mani di pochi: questo processo è andato di pari passo con la civilizzazione, e soltanto guerre, rivoluzioni, epidemie e fallimenti di Stati hanno livellato le disuguaglianze economiche.
Insieme al riscaldamento globale, il tema delle disuguaglianze economiche abissali, all’interno degli Stati, innanzitutto, è la sfida colossale del nostro tempo. Scheidel la affronta in una prospettiva storica comparativa di lunghissimo periodo; spaziando audacemente tra millenni e continenti, sulla scorta di ricche e approfondite analisi quantitative, mostra che il dominio del famigerato “1%” (espressione entrata in uso per indicare i ricchissimi che, percentile più o meno, sovrastano la restante massa impoverita) risale alle prime civiltà stanziali nate con la domesticazione di animali e piante. Chi è molto vicino al potere può accumulare straordinarie ricchezze, ma altrettanto facilmente cadere in disgrazia e finire stecchito, nella Cina antica come nella Russia di Putin, con la recente moria di oligarchi in circostanze sospette.
Ma soprattutto, migliaia di anni di storia attestano che «i progressi costanti nella capacità economica e nell’edificazione della struttura statuale hanno favorito la crescita della disuguaglianza, ma hanno fatto poco o nulla per metterla sotto controllo». A ridurla in modo significativo sono stati solo gli shock violenti, i “quattro cavalieri”, li chiama Scheidel, richiamando allegramente l’Apocalisse: guerre (con mobilitazione generale), pandemie (quelle da crollo demografico tipo Peste nera: oggi, Covid docet, abbiamo strumenti per intervenire), crolli di Stati e rivoluzioni trasformative – anche se gli effetti di queste ultime sul medio-lungo periodo, dall’ex Urss alla Cina, sono annullati. La più significativa «stagione egualizzatrice» della storia è stata la «grande compressione» tra 1914 e il 1950, ma quando lo shock della Seconda guerra mondiale si è allontanato, la disuguaglianza ha ricominciato a crescere a ritmi vertiginosi.
Il problema sono quindi le prospettive future. Nell’ultima parte, Scheidel esamina cos’abbia modellato le disuguaglianze nel «mondo relativamente pacifico» post ’45, a cui presume assomiglierà il futuro (da notare che gli sviluppi drammatici degli ultimi mesi hanno reso assai meno convincenti alcune considerazioni). Gli agenti di «egualizzazione pacifica», come l’istruzione di massa, l’estensione del diritto di voto, la socialdemocrazia (col suo corredo di welfare, tasse patrimoniali e forme di governo dell’economia) e l’azione sindacale – che è tra i fattori più incisivi (il che spiega la strenua ostilità di cui è oggetto da parte dei conservatori di ogni dove) – non possono vantare curricola paragonabili agli shock violenti.
Che fare, dunque, cataclismi a parte?
La disuguaglianza crescente è saldamente radicata in scelte politiche pregresse: riduzione delle tasse ai super-ricchi, deregulation, promozione dei paradisi fiscali... Negli Usa, campioni di disuguaglianza, l’impennarsi della polarizzazione politica da Reagan in poi è stato seguito da una crescente divaricazione dei redditi, alimentando poi il circolo vizioso per cui i bianchi impoveriti e frustrati votano Trump. Senza nascondere il proprio scetticismo, Scheidel dà comunque conto delle politiche per ridurre la disuguaglianza di vari economisti, tra cui spiccano Thomas Piketty (primo ispiratore di questo saggio) e Anthony Atkinson, sottolineando come siano sempre carenti quanto alla «considerazione dei mezzi necessari per mobilitare maggioranze politiche per attuarle».
La partita è aperta: a noi, e ai posteri, l’ardua sentenza.
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