«Uno scotch... doppio...»
Beveva parecchio
Alain Poitaud è il direttore della rivista “Toi” e, sì, beve parecchio. Nelle centosettanta pagine de La prigione, l’ultimo libro pubblicato da Adelphi di Simenon (autore di cui qui potete leggere un nostro approfondimento), Poitaud chiede dodici scotch (doppio), sedici whisky (doppi, anche quelli) e diversi bicchieri di vino rosso e rosé di cui si perde il conto, ma non è un problema: regge bene, dice, non si sbronza mai. A differenza di sua moglie, Jacqueline, la sua «Micetta» – Alain dà un soprannome a tutti, perlopiù li chiama «cocco» o «bello mio – che preferisce controllarsi in tutto. Lei è molto razionale, composta, e da qualche tempo ha un piano, che nella serata piovosa di ottobre con cui prende il via il libro mette in pratica: uccidere la sorella Adrienne.
Una piovosa sera di ottobre Alain Poitaud, direttore appena trentaduenne di un settimanale di enorme successo, trova ad aspettarlo davanti al portone di casa un ispettore della Polizia giudiziaria. Poco dopo si sentirà dire che sua moglie Jacqueline ha ucciso la sorella minore, Adrienne, con un colpo di pistola, chiudendosi poi in un mutismo assoluto.
Ora, scrivere di un giallo è sempre un equilibrismo che, talvolta, risulta ridicolo: nel tentativo di non dire, si imbottisce il proprio pezzo di frasi allusive e locuzioni misteriose. Ma il libro di Simenon mi salva dallo scivolone perché comincia con tutto ciò che il lettore vuole sapere, chi ha ucciso chi, perché e quali sono le relazioni tra i personaggi. Simenon fa in fretta, non perde tempo, non è lì che vuole andare a parare. L’obiettivo, semmai, è portarci insieme a lui nel centro della prigione, in un dedalo di corridoi, celle e vicoli ciechi talmente intricato e pastoso che sembra impossibile uscirne.
Nella prigione, quella fisica, reale, c’è Jacqueline, ovviamente, che non ha fatto nulla per depistare la polizia dall’omicidio che ha commesso, anzi, si fa trovare proprio accanto al corpo della sorella, che ha guardato agonizzare dopo lo sparo. Nell’altra prigione, che non si vede ma le cui maglie sono vive e instabili, c’è invece Alain, il perno attorno cui si articola la storia. Perché se da un lato è Jacqueline a uccidere Adrienne, dall’altro è Alain a essere immischiato con tutte le parti in causa, dalla moglie, certo, all’arma del delitto, alla cognata, fino a una diramazione ampissima e intricata. È in questa deflagrazione feconda e inarrestabile di personaggi e situazioni che risiede la grande capacità del Simenon narratore: lascia solo un punto cieco, e quello traina l’intera vicenda, sino a che in un paio di battute è illuminato, ma a nessuno, tranne ad Alain, importa granché. Noi ci siamo goduti la discesa, l’aggrovigliarsi di un uomo che ha la sensazione della verità e che spera di non trovarla.
Alain alzò le spalle. Come se si fosse mai interessato a cosa faceva o non faceva Micetta! Tutto quello che le chiedeva era di essere presente, lì, accanto al suo gomito destro, a portata della sua voce e della sua mano
Più si va avanti a leggere La prigione, più ci si rende conto di un dato di fatto: Alain è insopportabile. Cifra di un libro ben fatto è senz’altro l’emozione che suscita nei lettori, e qui c’è una massiccia dose di repellenza per quest’uomo borioso, saccente, superficiale e del tutto incapace di vedere al di là della punta del proprio naso. La rotondità di Alain e le sfaccettature del suo ego sono ciò che lo rende un buon personaggio; ma ciò che lo rende un perfetto essere umano – nel senso di compiuto, vero, non certo di impeccabile – sono le piccole, microscopiche esitazioni che Simenon semina nella sua storia. Talvolta, in rari stati di grazia in cui l’egoismo si crepa, Alain ha dei moti appena accennati di empatia: si domanda come il figlio prenderà la notizia della madre in prigione, prova un sentimento misto a colpa e compassione, e forse amore, per Adrienne, rabbia per l’accaduto, gelosia addirittura, e un’incommensurabile inadeguatezza. Ma sono attimi, inciampi umani che Alain si affretta a correggere con whisky e scappatelle.
La prigione di cui parla Simenon, quindi, può essere un sacco di cose. Chi scrive questa recensione l’ha vista come un labirinto ombelicale e claustrofobico in cui Alain si muove come un ratto da laboratorio alla ricerca di qualcosa – non necessariamente la verità. Anzi, di certo non la verità. Non c’è un minotauro, tra le vie del groviglio, né un centro, c’è solo Alain, e le cose che accadono stanno tutte fuori e lui le vede sfocate, o ne sente un’eco, o non le sente affatto. Simenon ci ha confezionato un mistero in cui restare invischiati a nostra volta, come Alain, e noi non possiamo che continuare a domandarci: esiste un’uscita?
Era la verità. Un gran lavoraccio. Un lavoro che in genere si fa una volta sola nella vita. Era sceso nel profondo di se stesso. Aveva grattato la superficie, messo a nudo la carne viva fino a sanguinare. Adesso era finita. Non sanguinava più. Ma non potevano pretendere da lui che tornasse a essere lo stesso uomo.
Ti potrebbero interessare
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Conosci l'autore
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente