Sono ottant’anni dalla nascita di Antonio Tabucchi, ma piuttosto che un anniversario questo è un appuntamento, un appuntamento che dovrebbe essere celebrato costantemente. Perché di Tabucchi sentiamo la mancanza, vien voglia di tanto in tanto di tornare sui suoi testi e, tornandoci, subito affiora lo stupore che ci prende di fronte alla pertinenza della sua parola, della sua immaginazione.
Così mi è accaduto riaprendo le pagine delle sue ultime raccolte di racconti, così ossessionati dal tempo, dal tempo che «invecchia in fretta», dal «farsi sempre più tardi», dal residuo che insiste e resiste perché, dentro l’accadere, «di tutto resta un poco». C’è una sorta di fiato corto, dal 2001 al 2013, nel dar conto di fatti, viaggi, letture, personaggi, nel riandare, attraverso il tempo, verso le trappole del caso, verso l’ironia delle svolte, verso le sintesi che si credevano definitive.
Non si sa quasi niente di quest’uomo, tranne che è diretto a Creta per un convegno. Ma di fronte a un bivio, un’energia nuova, quasi una piccola felicità, lo fa deragliare verso l’imprevisto. E il tempo si attorciglia su se stesso fino a confondere la realtà con l’immaginario. Un racconto ammaliante che condensa la poetica di Tabucchi.
Nel racconto Controtempo, un suo credibile alter ego è su un aereo diretto a Creta, dove crede di passarvi un fine settimana e invece entra in un déjà vu che lo spinge avanti fin dove quel giorno, che di fatto lo sottrae al mondo, evapora in anticipazione di memoria. Uno slittamento. Una torsione del tempo. Una chance che si avvera dove il vero distoglie lo sguardo. Già. Forse anche lì, come altrove, vige il juego del revés, quello che muove per l’appunto Il gioco del rovescio. Un racconto memorabile. Per quanto mi concerne coincide addirittura con la messa a fuoco del piccolo volume, appena uscito per i tipi de Il Saggiatore (è il 1981), tra le mani di Luca Formenton in corso Italia a Milano. Copertina blu, d’un blu intenso che scolora digradando dall’alto verso il basso.
Cominciò lì la mia personale avventura di lettore dell’opera di Antonio Tabucchi.
E cominciò in tutta grandezza.
Davanti a Las Meninas di Velázquez c’è un uomo al quale torna in mente l’esortazione dell’amica Maria do Carmo: «La chiave del quadro sta nella figura di fondo», ovvero il maresciallo di palazzo che scosta una tenda. Maria do Carmo muore esattamente mentre il narratore è al Prado. Lui raggiunge Lisbona per le esequie e il marito di Maria gli rivela che lei faceva il doppio gioco: era una spia di Salazar e non la dichiarata oppositrice del dittatore che diceva di essere. Chi ha letto questo racconto sa che non c’è riposo in quello scandaglio, che la percezione delle cose scivola continuamente fuori dall’asse di quella visione che riteniamo avere fondamenti di realtà.
Sono tornato al Gioco del rovescio perché da lì è facile (la facilità della complessità) scendere e risalire lungo la corrente per arrivare alle ultime raccolte di storie. Maria do Carmo, la spia. La amiamo perché ci sfugge, e perché di fatto, attraverso il narratore, spia noi che leggiamo - come il maresciallo di palazzo nella tela di Velázquez. E allora, ecco che mi ritrovo in un racconto di Il tempo invecchia in fretta intitolato I morti a tavola. Qui, come là, c’è una grandezza di visione cauta, meditata, ironica che lavora sul lettore come una molestia. Senti i passetti del protagonista sull’Unter den Linden, e senti la Storia che gli ha vorticato intorno, e senti il narratore nel mezzo che a sua volta poggia i suoi passi, quasi a intralciargli il cammino. Si racconta di un ex agente della Repubblica democratica tedesca che passeggia per le strade di Berlino: dopo la caduta del muro ha un nuovo appartamento, è annoiato e solo; si è preso cura per anni della moglie Renate, ormai invalida permanente, e ora rimpiange il tempo in cui la Ddr gli affidava l’incarico di pedinare i sospetti. C’era anche Bertolt Brecht fra i suoi sorvegliati, lo aveva tallonato con costanza quasi affettuosa. Ora va a trovarlo nel piccolo camposanto di Dorotheenstadt, a due passi dalla casa in cui il drammaturgo aveva vissuto con Helene Weigel. Va a trovarlo e gli vuole confidare un segreto: di averlo pedinato e di essere stato a sua volta pedinato, e quindi di essere entrato, con tutta la sua esistenza, nei fascicoli documentali che, una volta diventati consultabili, gli hanno rivelato l’infedeltà della moglie, la bella Renate. Ci fono foto della bella Renate insieme al capo dell’Ufficio Interni, a Praga, a Budapest, su una spiaggia del Mar Nero. È da due anni che sa, ma ormai che vale invertire la rotta degli affetti? Forse ora siamo tutti morti, come i morti della poesia di Aragon citati nel titolo.
Tabucchi ci ha raccontato – come lui nessuno – quando il mondo accelera o decelera, quando il mondo si stanca. Torno a quel racconto e mi accorgo che vorrei essere alle spalle del narratore che pedina il suo personaggio, ignaro di essere nel mirino di un altro agente, ma incollato idealmente alle spalle di Brecht, tutti finendo nell’assorto spazio di una urticante confidenza, in un piccolo cimitero, fra le tombe di Hegel e di Fichte, fra il tempo maggiore e il tempo minore. Spogli di tempo e del senso che a quel tempo avremmo volentieri attribuito. Terrestri come i nostri sentimenti. «L’eternità è orizzontale», fa pensare Tabucchi al suo personaggio, a Karl, eroe del tempo stanco.
«È vero, raccontare è un gioco e io, lo ammetto, amo molto giocare. Il gioco mi ha sempre tentato; ma in questo momento il gioco che più mi tenta è quello del Rovescio. E gli altri giochi che esso si porta appresso, naturalmente. Perché ci sono svariati giochi in questo libro, tutto sta nel lasciarsi tentare».
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