Mai come oggi il capitale sa che donne indisciplinate producono figli indisciplinati, e che c’è un diretto cordone ombelicale tra il rifiuto della cucina e il rifiuto della catena di montaggio, della scuola, dell’esercito. […] Salario contro il lavoro domestico, contro il lavoro precario, contro il lavoro dello studio, contro il lavoro della fabbrica, rimane oggi, infatti, come sempre la parola d’ordine della classe. E POSSIAMO VINCERE.
Scrivevano così sulla rivista Le operaie della casa, in un numero speciale intitolato Mille fiori sbocciano appassiti. Siamo nel 1977, gli impianti industriali di Porto Marghera da alcuni anni sono al centro di una pesante politica di ristrutturazione amplificata dallo scandalo della nocività degli impianti petrolchimici. Non stupisce che le femministe venete, metaforicamente, “tingano di blu” i grembiuli delle casalinghe.
Esiste, infatti, un aspetto meno noto del femminismo italiano elaborato tra Padova, Mestre e Venezia, che parla di lavoro delle donne come non era mai stato fatto prima. Un movimento che ha il suo epicentro in Veneto ma che ambisce ad avere un respiro internazionale, e per questo sceglie di costituirsi come Collettivo Internazionale Femminista, in relazione con i collettivi di Stati Uniti, Inghilterra e Francia.
Il 24 febbraio del 1975 le strade di Padova sono attraversate da una manifestazione nazionale per il salario al lavoro domestico, organizzata dal nuovo Comitato triveneto per il salario domestico. Il fuoco delle rivendicazioni viene spostato un po’ più in là, oltre una zona comfort dove il movimento femminista italiano e la sinistra – ci tenevano a specificare «parlamentare e non» – non aveva ancora guardato.
“Nel cesto dei panni sporchi”, Lotta Femminista va in cerca di una nuova concezione del lavoro che le donne svolgevano nel chiuso dello spazio domestico dove si accampano forme di sfruttamento tra le più silenziose: «quella enorme quantità di lavoro che ogni giorno le donne sono costrette ad erogare per produrre e riprodurre la forza-lavoro, base invisibile – perché non pagata – su cui poggi l’intera piramide dell’accumulazione capitalistica».
È contro questa visione del lavoro domestico, relegato a una funzione “ancillare” ed estranea allo sviluppo capitalistico, che Lotta Femminista proponeva un’alternativa politica, come scrivevano nella premessa dei Quaderni di Lotta Femminista:
Il nostro punto di vista rompe completamente con questa teoria e questa pratica. Tutte le donne son casalinghe e questo vuol dire che svolgono una doppia funzione per il capitale. Da un lato fanno nascere, allevano e servono, cioè producono la forza-lavoro, dall’altro disciplinano questa stessa forza lavoro per il lavoro capitalistico.
La lotta per il riconoscimento del valore produttivo delle cure domestiche entra come una lama tagliente nello spettro delle rivendicazioni sui temi del lavoro. A rileggere gli articoli della rivista Le operaie della casa vediamo quanto radicale fosse la loro proposta, intenzionata a ribaltare totalmente l’assioma su cui si basava il modo di intendere la divisione del lavoro tra i sessi, fino a un superamento del lavoro stesso come unica condizione di vita: «La liberazione dal lavoro forzato, dalla costrizione al lavoro, che è quello che oggi soffoca tutta la nostra vita», proponevano, come condizione imprescindibile per poter liberare la creatività e la «forza invenzione» della classe.
Per smontare il patriarcato bisognava mettere quindi il personale al centro e dotare il personale di rilevanza politica. Questa la grande acquisizione del femminismo e il presupposto fondamentale che porta la questione del “doppio lavoro non riconosciuto delle donne” a superare la sfera privata e intima e ad assumere una rilevanza di natura sistemica.
«Le donne escono dalle cucine» – scrivevano – ed estendono la loro sfera di azione dalla casa al quartiere, trovando lo stimolo a organizzare in maniera autogestita asili nido, servizi di pre-scuola e dopo-scuola, consultori e biblioteche. Dotare il quartiere di servizi sociali essenziali sembra essere il passo preliminare ad una “liberazione” di tutte le donne dall’asfissiante e solitaria gestione della sfera domestica. Ma tra Venezia e Mestre il quartiere contiene anche la presenza ingombrante di Porto Marghera e questa prossimità determina una forma particolare di incorporazione dell’immaginario di fabbrica – come scrive la storica Laura Cerasi – espressione di lavoro incarnato.
«Il nostro corpo diventa così soltanto una macchina» denunciavano le femministe venete in un articolo del 1975, «Ciao come stai?» «Male» della rivista bimestrale Città-Classe:
Diventa così soltanto una macchina che produce bambini per lo stato, li alleva finché non sono autosufficienti, abortisce, indipendentemente da una libera scelta. […] per lo Stato Capitalista perciò il nostro corpo è una macchina che deve funzionare ininterrottamente fino ad esaurimento completo. Cioè fino a che moriamo. A differenza del petrolio, dell’energia elettrica, il corpo della donna è fonte di energia che allo stato non costa nulla. Il nostro corpo però costretto a funzionare come macchina si ribella continuamente.
Il grande scarto compiuto da quel segmento del movimento femminista stava nel guardare alle zone d’ombra del lavoro delle donne, al suo essere non pagato e percepito come un attributo naturale essenzializzato. L’obiettivo non si riduceva alla conquista di un oggetto – il salario – ma puntava ad aprire una vera e propria prospettiva politica.
Siamo a uno dei punti zero della rivoluzione, per dirla con la sociologa e attivista Silvia Federici, che nel 1974 scriveva il saggio Salario contro il lavoro domestico. Là dove le contraddizioni insite nel lavoro alienato diventano più esplosive perché il solo fatto di dire la parola salario significa rompere un incantesimo di invisibilità e iniziare a rifiutarlo. Pretenderlo per dichiararne la violenza e lottare contro di esso.
Di
| effequ, 2021Di
| Blackie, 2021Di
| Tlon, 2020Di
| Rizzoli, 2020Di
| Rizzoli, 2023Di
| Laterza, 2023Di
| Laterza, 2023Di
| Einaudi, 2022Altri approfondimenti
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