Luce sulla Storia

“Al contadino non far sapere quanto è buono l’uranio con le pere”

Il 20 marzo 1977 una piccola cittadina dell'alto Lazio, Montalto di Castro, si popolava di “visi variopinti” arrivati per partecipare alla prima manifestazione antinuclearista d’Italia.

Il luogo del raduno era Pian dei Gangani, dove avrebbero visto la luce due centrali termonucleari delle venti previste dal Piano Energetico Nazionale del 1975.

I giornali dell’epoca raccontano di un clima festoso, nonostante la pioggia battente, con le frange creative del movimento del ’77, gli indiani metropolitani, a sostenere il comitato cittadino organizzatosi contro l’installazione degli impianti. Parliamo di un raduno di circa 20000 persone arrivate a Montalto “per la libertà dalla paura: no alle centrali, sì alla Primavera”, scrivevano su Lotta Continua il 22 marzo 1977.

«La primavera è liberazione dal freddo e dalla paura e se siamo qui a manifestare contro l’industria dell’atomo è perché produce appunto la paura […] vogliamo continuare ad essere padroni della primavera in queste campagne, per tutte le generazioni che ci seguiranno», continuava l'articolo. 

Da dove arrivava questa paura? Se allarghiamo il campo al contesto generale, La festa della vita di Montalto di Castro sembra un avvenimento anticipatore.
Quella mobilitazione nelle campagne viterbesi veniva prima dell'incidente di Three Mile Island  avvenuto in Pennsylvania il 28 marzo 1979, passato alla storia come il più grave incidente nucleare statunitense, e veniva ancora prima del fatidico incidente al reattore 4 della centrale di Chernobyl, il 26 aprile 1986.

Ad accendere e alimentare questo sentimento di ansia collettiva doveva aver contribuito quanto accaduto a Seveso, in Brianza, nel luglio dell’anno prima, per via della fuoriuscita di una nube di diossina dalla fabbrica dell’industria chimica ICMESA. L’impatto diretto che questo disastro aveva avuto nella vita quotidiana delle persone coinvolte, il terreno contaminato, l’obbligo di evacuazione, le case circondate dal filo spinato, l’obbligo di lasciare lì ogni cosa, persino gli animali domestici.

Non stupiscono i cani robotici, le piante mutanti e gli strani uccelli dal verso elettronico della vignetta di Lotta continua dedicata alla manifestazione di Montalto, il giorno dopo.  
Dà forma all’immaginario distopico che faceva da cornice alle questioni più politiche della protesta antinuclearista: «l’uso antiproletario dell’energia», l’idea che processi tanto sofisticati avrebbero sottratto ancora di più le fasi della produzione al controllo dal basso della popolazione e dei lavoratori – scrivevano – prefigurando un capitalismo sempre più autoritario e centralizzatore.

La storia del nucleare in Italia è costantemente attraversata da riverberi internazionali.
È sull’onda di Chernobyl che nel 1987 la maggioranza dei votanti si espresse a favore del referendum abrogativo che limitava la costruzione di nuove centrali nucleari oltre a quelle già attive sul territorio italiano. E di nuovo più recentemente, nel 2011, è stato il disastro di Fukushima a incentivare un secondo referendum contro il rilancio dell’energia elettronucleare.

Già in quella prima manifestazione di Montalto un aspetto fondamentale della critica politica riguardava il tema della dipendenza economica dalle due superpotenze del periodo: «il vassallaggio politico del Paese» dalle nazioni fornitrici, scrivevano sul Quotidiano dei lavoratori a due giorni dalla manifestazione. L’autonomia energetica sarebbe stato un gigantesco bluff, denunciava anche Lotta Continua: «perché saremmo due volte dipendenti sia per la tecnologia del reattore che le nostre industrie non sono in grado di padroneggiare, per cui saremo completamente legati alle compagnie licenzianti degli USA, che per il combustibile, l’uranio arricchito, attualmente monopolio di USA e URSS». E di nuovo ancora oggi, quando la questione del nucleare torna a far parlare e a palesarsi come una possibile soluzione “alternativa”, è il contesto internazionale che fa da timone. Il fantasma dell’autonomia energetica che si aggira tra le instabilità del conflitto russo-ucraino, le sanzioni, lo stop alle importazioni di gas, la paura di sentire freddo davvero con la stagione invernale alle porte.

Tornare sui primi passi del movimento ecologista italiano a pochi giorni dallo sciopero globale per il clima del 22 settembre, mette in luce le differenze più che le chiare linee di continuità.
Così per il tema legato alla lotta di classe, indubbiamente sgonfiato, che trova forse una nuova espressione nella denuncia dell’alternanza scuola-lavoro e delle morti bianche lavorando gratis “nella scuola dei padroni e di Confindustria”. Il confronto con l’oggi segna la mutazione degli immaginari. Soprattutto se ci soffermiamo su quella visione di lunga durata che portava allora il movimento a intervenire nel presente per difendere e garantire l’integrità dell’ambiente a “tutte le generazioni” che sarebbero venute dopo di loro.
Se anche le strade si colorano ancora di striscioni e delle giovani energie della generazione Z, la contestazione è attraversata da toni catastrofici e all’orizzonte c’è il baratro dell’estinzione. Viene da chiedersi che conseguenze avrà tutto ciò sulle traiettorie di ciascuno, non solo i più giovani.
Sapremo salvaguardare la capacità di pensare e progettare il futuro senza dover tirare il freno a mano?

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