Vasco Pratolini ha occupato uno spazio importante nella narrativa del dopoguerra, prima con le Cronache (Cronaca familiare e Cronache di poveri amanti), poi con il romanzo storico – oggi diremmo la serie – che comincia con Metello (Una storia italiana I), prosegue con Lo scialo (Una storia italiana II) e si chiude con Allegoria e derisione (Una storia italiana III). Che dal 1955 fino al 1966 abbia sentito l’esigenza di aggettivare con “italiane” le sue storie è piuttosto significativo, giacché la sua ambizione è sempre stata quella di conquistare una fisionomia nazionale, e dunque di dilatare la scena dalle vicende fiorentine – che pur costituiscono la sostanza più generosa della sua scrittura – a quelle del Paese.
Piccolo classico che tratteggia con sofferta onestà la complessità degli affetti familiari, questo romanzo è al tempo stesso un canto all'innocenza spezzata e la straordinaria prova d'autore di un maestro del Novecento.
Lo fa premuto, da una parte, dalla autentica passione civile (e politica) che, dopo la veemente adesione giovanile al fascismo, lo vede in ruoli dirigenziali nel Partito comunista, e dall’altra, ispirato da una vigorosa curiosità per le città in cui, negli anni quaranta, lavora e si forma: Napoli e Milano, in particolare, ma anche Roma.
In realtà lo “strappo” dalla ricchezza di memoria e dalle suggestioni autobiografiche legate alla Firenze popolare non è facilmente consumabile.
Lo strappo avviene – e, per quanto piccolo, si tratta di un episodio interessante – quando scrive per Luchino Visconti il testo del cortometraggio Appunti su un fatto di cronaca, girato nel 1951 nel quartiere Primavalle a Roma. È sua la voce che accompagna le immagini ancora debitrici a La terra trema con cui Visconti racconta la violenza consumata da un maniaco su una ragazzina di dodici anni. C’è qui una deliberata intenzione di mettere a fuoco la “realtà” di un popolo che solo pochi anni più tardi è al centro della avventura narrativa e cinematografica di Pier Paolo Pasolini.
Dall'infanzia alla maturità, l'esistenza di Metello si snoda attraverso le tappe principali della storia di un'Italia agli albori: una nazione ritratta all'indomani dell'Unità, travagliata da duri conflitti di classe, ancora – e sempre – in cerca di se stessa.
La “cronaca”, qui come altrove, più che cronaca è occasione per mettere a registro una nuova voce. Le conseguenze sono quelle che, con una certa ribelle spietatezza, Alberto Asor Rosa segnalò come deriva populista nel suo celebre saggio Scrittori e popolo. Vasco Pratolini ha sempre cercato nelle radici popolari la schiettezza del tratto fisiognomico dei personaggi e della loro identità sociale (quasi una traduzione – più mossa, più agitata – della pittura dell’amico e maestro Ottone Rosai). Ha scavato nelle psicologie (la struggente relazione tra fratelli in Cronaca familiare), ma ha preferito obbedire al cliché operaio in Metello, come se, per uscire dall’“orto di casa”, fosse necessario obbedire alla modalità narrativa di un agonizzante naturalismo. E quanta polemica si abbatté negli anni cinquanta sul personaggio del giovane proletario, più protagonista nelle camere da letto che sulle barricate del movimento operaio.
Il mondo del quartiere, la rappresentazione corale della vita di un rione popolare di Firenze: il libro di Pratolini è una favola moderna ma dall'ossatura antica, che si richiama alla novella boccaccesca, dove il vero protagonista è proprio lui, il quartiere di Sanfrediano.
Eppure. Torno a rileggere le pagine di Le ragazze di Sanfrediano, quelle che – ci rammenta Francesco Piccolo nella prefazione all’edizione Bur 2012 – alludono a “una vera e propria educazione sentimentale per il maschio italiano”. In verità, più della sorte del povero Bob (il bel protagonista) vince, a mio avviso, il quartiere, ovvero la comunità e la sua ricchezza corale. Non è un caso che Il quartiere (1943) sia titolo decisivo della lunga sequenza di romanzi pratoliniani.
Piuttosto che di storie italiane Pratolini è, paradossalmente, pittore di un solo teatro sociale (e di quello volentieri ci ricordiamo), che però lascia affollate percezioni di caratteri, di strazi, di baruffe, di giovinezze ribelli. Ed è proprio a partire da queste giovinezze che Goffredo Fofi ci ha lasciato una delle letture più intense e profonde di Vasco Pratolini, il Pratolini che, dall’interno delle vicende di cui formicola il tempo che è stato il suo, avverte la crudeltà della formazione, la terribilità e lo sgomento di esistere, lo spasmo di non sapere dove andare o di andare dove non era previsto di andare, “quando – dice Fofi – “ognuno è nuovo al mondo e deve scoprirne bellezza e bruttezza, giustizia e ingiustizia, verità e falsità, deve scegliere cosa fare di sé e del tanto di vita che gli è stato dato di vivere. Insieme ad altri, al ‘quartiere’”.
Di
| Rizzoli, 2012Di
| Rizzoli, 2011Di
| Rizzoli, 2015Di
| Rizzoli, 2016Di
| Rizzoli, 2011Di
| Rizzoli, 2012Di
| Rizzoli, 2012Di
| Rizzoli, 2013Di
| Via del Vento, 2001Di
| Firenze University Press, 2017Gli altri approfondimenti
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