«Nel cielo fu la Stella» e se guardiamo in alto possiamo ancora scorgere quella cometa di versi che ha resistito alla fiamma del tempo.
Natale
La pecorina di gesso,
Il poeta dell’ironia e del quotidiano colloquiare nasce a Torino il 19 dicembre 1883:
Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca | tuttavia d’un tal garbo parigino, | in te ritrovo me stesso bambino, | ritrovo la mia grazia fanciullesca | e mi sei cara come la fantesca che m’ha veduto nascere, o Torino!
È proprio fra la città natale e Villa Il Meleto – la residenza estiva della famiglia – che, con incedere lieve, Guido Gustavo Gozzano traccerà le prime linee del suo universo poetico.
«[…] il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici […]», una collezione di farfalle: sono i cocci di fragile speranza che riempiono la vita del «vecchio giovane» poeta.
Nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza che abbandonerà per vestire di parole l’anima di quel «moribondo che non vuole morire» oramai tormentato dalla perfezione della «Signora vestita di nulla».
È del 1907 infatti il primo componimento poetico, La via del rifugio, che – come ha scritto Edoardo Sanguineti – appartiene alla «preistoria della poesia gozzaniana» seguito nel 1911 da una seconda raccolta di ventiquattro liriche: I colloqui.
Lo scrittore e critico letterario Renato Serra scriveva:
Ognuno conosce la ricetta del fare del Gozzano. Argomenti provinciali ed infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami del colore di rose tea; ambiguità dell’amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odore; e poi i versi che sono prosa; le monotonie che diventano varietà e la cascaggine che diventa forza; l’enfasi dell’accento e della rima messa su tutti i punti più banali; quell’aria di dare come nuove e commoventi tutte le cose tristi e mediocri
Sospese fra realtà e mondo immaginifico, alcune figure femminili hanno tessuto l’ordito di questo controverso poeta del Novecento italiano. Protagoniste del solitario peregrinare gozzaniano queste donne vivono tutt’oggi attraverso le sue potenti liriche: Primavere romantiche, L’amica di Nonna Speranza, La Signorina Felicita, Cocotte e Una risorta.
A fare da cornice al lento scorrere quotidiano c’è tuttavia il mal sottile e nel 1912 lo scrittore delle piccole cose parte per l’India alla ricerca di un antidoto alla sua inevitabile breve vita.
Dall’alto di quest’isola d’Elefanta – tomba del passato – si contempla l’isola di Bombay – cuna dell’avvenire – e nessun contrasto è più profondo e più significativo. […] Meglio non essere nati. Certo. Ma essendo nati… adagiarsi nella vita con tutti i beni che la vita può dare
Attraverso la maschera della malattia Gozzano trova la propria voce. Quella voce che la gravità della vita aveva ammutito. E la parola levita. E si fa crisalide in quel ciclo interrotto dalle ombre dell’esistenza.
Alle soglie
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,
pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.
E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…
«Appena un lieve sussurro all’apice… qui… la clavicola…»
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
«Nutrirsi… non fare più versi…nessuna notte più insonne…
non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:
Nervi.… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…»
Riconosciuta come un classico della letteratura moderna, la produzione gozzaniana rischia di essere cancellata dalle coordinate della memoria rendendo vane le parole di quel «fratello muto» tanto caro all’alter ego del poeta e pronto per spiccare il volo. Scrive in Piumadoro e Piombofino, fiaba tratta dall’opera postuma La principessa si sposa (1917):
Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso. […] Ma col tempo divenne così leggera che […] il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, in alto, come una bolla di sapone… […]. Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, trasporatti dal vento. […] Nella Reggia si era disperati. Il Reuccio Piombofino aveva sfondato col suo peso la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. […] Ormai il peso del giovanotto era tale che tutti i buoi del Regno non bastavano a smuoverlo d’un dito. Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiamati inutilmente intorno all’erede incantato.
Diciannove dicembre duemilaventitré.
La Notte Santa si avvicina.
Lasciamoci impreziosire dalle «buone cose di pessimo gusto».
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