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Guerra Israele-Hamas: il punto di vista degli scrittori israeliani

Siamo all’ennesima escalation devastante in una terra – la Palestina – che non conosce tregua. La guerra tra Hamas e Israele riaccende l’attenzione su un conflitto irrisolto, una convivenza forse impossibile, un luogo senza pace.

In questo momento le testimonianze degli scrittori israeliani possono fornirci una visione approfondita delle sfide e delle complessità di questa guerra. Questi autori spesso si trovano al centro degli eventi, offrono prospettive intime sulla vita quotidiana, le emozioni e le esperienze dei cittadini israeliani di fronte alla minaccia. Le loro parole sono un modo per esplorare le conseguenze umane di un conflitto prolungato.

Ma non solo, perché l’importanza della conoscenza e della testimonianza risiede anche nella comprensione reciproca e il dialogo tra le parti coinvolte. Mentre il conflitto tra Israele e Hamas è altamente politico e complesso, le storie raccontate dagli scrittori israeliani possono aiutare a creare ponti di umanità, sfidando le divisioni e contribuendo a una visione più completa della situazione.

L’esplorazione nelle loro parole vuole essere proposta in un’ottica essenziale, senza fronzoli aggiuntivi, con dei pensieri brevi che possono racchiudere però il cuore di tanti aspetti che contano. Chi usa le parole cerca di provare a trovare quelle giuste, anche se lo sgomento, spesso, non le riesce ad afferrare.

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David Grossman è uno degli autori più prolifici d’Israele, che non ha mai risparmiato sé stesso sul conflitto e che, ricorda, a questa terra e a questo dolore ha consegnato suo figlio Uri, morto 17 anni fa in guerra.

«Ci sono momenti in cui si comprende che il Male non è sempre uguale ad altre forme di Male. Questo è un Male assolutamente unico, estremo. Un Male che non abbiamo mai conosciuto prima. Sento gente dirmi che dobbiamo essere obiettivi. Sì, dobbiamo esserlo sul Male e su quello che stanno facendo israeliani e palestinesi», in un’intervista rilasciata a Fabio Fazio, Che tempo che fa

La sollecitudine che c’è nelle parole di tutta l'intervista è anche indissolubilmente legata alla paura di perdere la terra designata al suo popolo, una paura concreta e che trova fondamenta in quello che – parafrasando le sue parole – sembra essere stata quasi una dimenticanza nell’eloquio stesso della politica, come se il Primo Ministro avesse messo da parte l’identità e avesse pensato a una risposta belligerante senza curarsi dell’essenza stessa del suo popolo, generando esclusivamente Male puro.

Assaf Gavron, scrittore israeliano, nonché una delle voci più forti nell’opposizione al governo di Nethanyau, è certo che una parte di Israele vorrà vendetta, nonostante sia una delle risposte più dolorose e controproducenti possibili. È fiducioso che questa non sia una netta maggioranza, perché in quella terra sanno bene che la vendetta asseta. La convinzione più forte dello scrittore è che, questa volta, il governo cadrà, già debole per le convinzioni che hanno portato alla formulazione della riforma della giustizia tanto discussa.

«Spero che il risultato di questa guerra sia un cambiamento nella percezione della realtà. E che si vada verso la comprensione del fatto che c’è un altro modo per mettere fine a questo secolo di violenza. Non so se sia realistico. Ma è comunque la mia speranza», da un’intervista a RSI.

«Non sono un analista politico, sono uno scrittore e un padre. Questa forma di estremismo islamico non è solo un problema di Israele, sappiamo quello che è successo l'11 settembre negli Stati Uniti o a Londra. L'Isis, Al Qaeda o Hamas sono parte di questa estrema e spietata crudeltà islamista. Queste ondate sicuramente non contribuiscono alla pace perché ci sono dei drammi che accadono proprio mentre stiamo parlando e per superare tutto questo e arrivare ad un accordo pacifico o anche solo discutere di pace, bisogna curare le ferite. Questa situazione è il male puro», ha dichiarato al Wired Next Fest 2023

Eshkol Nevo si trova in Italia per tenere delle lezioni alla Scuola Holden e, con lui, sono rimaste anche sua moglie e le sue figlie, impossibilitate a tornare a Tel Aviv. A dominare nel tono, nei pensieri, è la paura. La mente di Nevo va alle persone che sta perdendo, ai ragazzi che conosce e non ci sono più, a sua figlia diciannovenne che è arruolata nell’esercito israeliano e che lo chiama piangendo per la perdita di un’amica. E se, come alla fine delle sue parole, la priorità dovrebbe essere quella di curare le ferite, nel frattempo, a Gaza, gli ospedali rimangono senza alimentazione elettrica.

Sarai Shavit riporta la testimonianza del Kibbutz Nir Oz. Il kibbutz in sé è una forma di comunità collettiva, tipica di Israele, in cui c’è condivisione di proprietà e sono stati fondati principalmente da ebrei emigrati nel XX secolo in Palestina.

Shavit racconta l’emigrazione dei suoi genitori, le loro radici, la loro chuppah – il baldacchino sotto cui si sancisce l’unione matrimoniale indissolubile – ma soprattutto ricorda un amore come il loro, come quelli delle persone che sono famiglia per lei e che hanno assistito alla distruzione di tutto, tutto che si trasforma in un enorme fuoco. E nonostante tutto, chi vive lì, vuole restare per non far sì che questa barbarie venga dimenticata.

«Adi Negev, una cara amica della mia famiglia, è cresciuta nel kibbutz, dove ha vissuto dal giorno della sua fondazione. Si è chiusa nell'area protetta della sua casa quando è iniziato il massacro e si è miracolosamente salvata da Hamas. Quando è uscita, è rimasta sola nel kibbutz, che in gran parte è andato a fuoco.

L'esercito vuole far evacuare tutti, così staranno più tranquilli, mi dice con frustrazione. Sarà possibile nasconderlo e lo nasconderanno. Lo seppelliranno nei loro archivi per cinquant'anni. Ma finché ci sarò io, non potranno farlo. Ci sono cose che devono essere fatte e domande che devono essere poste. Nella mia comunità si chiama tzmud. Io non me ne vado», tratto da Jewish Book Council.

Etgar Keret è uno degli autori più famosi della sua generazione, riconoscibile per la sua ironia tagliente e per la capacità di creare storie memorabili, dando vita all’assurdo.

Il suo pensiero rispetto al conflitto in atto è legato al tentativo di tenersi umano – per quanto ci si senta tali a metà – ma l’incapacità è ciò che sente dilagare, come un osservatore impotente che attende inerme solo la prossima mossa, in uno stato costante di emergenza che non vuol cedere mai alla brutalità. Riportiamo un estratto da un’intervista rilasciata alla Stampa.

Da cosa deriva questo continuo senso di emergenza?
«C’è una cosa che ho scritto tempo fa, durante le proteste anti-coloniali: per tutta la vita ho avuto paura che Israele annettesse i territori occupati e non mi sono accorto quando i territori hanno annesso Israele».

Cosa significa?
«Che la brutalità, la xenofobia, il razzismo che caratterizza il sentimento dei coloni nei confronti dei palestinesi, ora è ovunque. Il linguaggio che veniva riservato dai coloni verso i palestinesi ora viene esteso a chi protesta, dicono che la polizia non è abbastanza violenta nei nostri confronti. Ora, perché la maggior parte di noi non sta con Netanyahu, siamo tutti palestinesi. Tutti traditori».

Come andrà a finire?
«Me lo domando da sempre. Posso concludere con una citazione di mio padre?».

Certamente…
«Quando ero piccolo gli ho chiesto, con l’innocenza dei bambini: Papà, pensi che l’Olocausto sia stato il periodo peggiore della tua vita?. Mi ha risposto: Nella vita non ci sono periodi migliori o peggiori, solo periodi facili e periodi difficili. E ho imparato che i tempi facili sono i più divertenti, ma che purtroppo è dai tempi difficili che si impara qualcosa. Questi sono tempi difficilissimi, ma noi israeliani stiamo imparando molto di noi stessi».

Zeruya Shalev, autrice di Stupore, una storia che draga i fondali di una famiglia israeliana, intrecciando la loro dimensione dell’umano e il presente e passato collettivo da cui non si può prescindere, Shalev ammette che ciò che ha scatenato Hamas è la realizzazione degli incubi più terribili che aveva da bambina e che mai avrebbe voluto vivere. L’auspicio più grande è quello che, ora, sembra macinato nell’utopia di un’unità che non si accenna neppure a desiderare.

«Israele è un paese fragile, con una storia durissima alle sue spalle - ha aggiunto - merita politiche e governi che lo capiscano e individuino strade che portano alla pace, non ad altri disastri. Mi auguro che tutti insieme israeliani e palestinesi si riesca ad annullare il potere di Hamas e che i palestinesi trovino una leadership che porti verso una pace sensata», in una dichiarazione all’ANSA.

Il richiamo di uno degli intellettuali più letti e amati in Occidente è un’eco critica e molto analitica, Yuval Noah Harari invita chi non è nel conflitto a prendere in considerazione la complessità della questione e non a schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra, senza essere pigri intellettualmente ed emotivamente, come riferito in un’intervista a La7. Mentre l’unica soluzione possibile sembra quella di una collaborazione fra Arabia Saudita e forze occidentali per un disarmo di Hamas, in un approfondimento molto articolato e complesso rilasciato al quotidiano La Stampa, dichiara che questo è un tempo di raccolta di sperimentazioni errate, che la storia ben conosce.

«Spesso la politica funziona come un esperimento scientifico, condotto su milioni di persone con pochi vincoli etici. Si collauda qualcosa (…) si osserva attentamente il risultato, si decide se procedere lungo quella strada specifica. Oppure si fa marcia indietro e si prova altro. Il conflitto israelo-palestinese è andato avanti così per decenni, con sperimentazioni ed errori».

Valzer con Bashir non è solo un fumetto, ma un film che al regista israeliano Ari Folman valse una candidatura all’Oscar. E mai come oggi quest’opera si mostra attuale. Ma Folman è tornato in questi giorni all’attenzione anche perché è l’uomo dietro la cinepresa dei video che spopolano in televisione e nel web, con gli appelli da parte delle famiglie delle persone israeliane rapite. In cinque giorni hanno messo su tutto per registrare i video e trasmetterli per sensibilizzare il rilascio degli ostaggi: man mano che vengono riconosciuti le persone tenute da Hamas, i video dei parenti, con i loro appelli, vengono rimossi.

L’esperienza di Folman è un’esperienza che nasce dalla presa diretta della sua vita di militare sul fronte in Libano e si trasforma, dopo il 7 ottobre 2023, in un servizio per gli altri, per trovare una soluzione mentre lo Stato non c’è: le storie che ha raccolto sono per lui una reminiscenza che torna, i racconti della sua infanzia, di famiglie nate e ricostruite dopo l’Olocausto e che ora fanno i conti con altro dolore.

Raja Shehadeh è candidato al National Booker Prize con un romanzo che racconta una storia radicata in questa terra, la storia della sua famiglia, in particolare del rapporto complesso con suo padre, We could have been friends, my father and I (un romanzo ancora inedito in Italia). L’analisi che consegna alle pagine del Guardian è densa di autentica nettezza nei toni, un excursus storico che ripercorre il passato per comprendere quello che accade oggi, cercando di tenere a margine i trasporti emotivi e le prese di posizione. D’origine palestinese, si è sempre mostrato aperto alla comunicazione fra i popoli, a una risoluzione pacifica per cui prodigarsi.

La ferocia e l’accanimento della guerra sgorgano via dalle sue parole, in cui la politica emerge come responsabile, una politica che invece, anni fa, sembrava portatrice di pace e giustizia da ambe le parti – basti pensare ai famosi accordi di Oslo, delle strette di mano sancite dal benestare di Clinton che vedevano un intreccio forte fra il presidente israeliano Rabin e il leader palestinese Arafat. I negoziati appaiono ancora una volta l’unica soluzione possibile, ma davanti alla disumana cecità c’è da chiedersi se davvero possa bastare.

Chiudiamo con la lucida, drammatica lettera che Manuela Dviri scrisse il 2 marzo 1998 all’allora primo ministro Nethanyau, pubblicata nel 2003, quindi vent’anni fa, nel volume La guerra negli occhi. Diario da Tel Aviv. Tutto cambia, ma purtroppo perché nulla cambi.

«Egregio Primo Ministro Benyamin Nethanyau,
certo non siamo noi i primi genitori che hanno ricevuto la sua splendida lettera di condoglianze.
Lei dice tra le altre cose: Non dimenticheremo mai ciò che noi dobbiamo a Jonathan e agli altri valorosi soldati che sono morti in nome della patria, e non ci daremo pace fino a che non avremo raggiunto il nostro obiettivo di una giusta pace per il nostro paese e di sicurezza per il nostro popolo.
Parole sante, egregio Primo Ministro.
Lei dice anche che è conscio del dolore che è piombato sulla nostra famiglia per la terribile perdita e promette di non dimenticare mai il nostro Jonathan. Davvero?
Davvero lei non dimenticherà mai il nostro ragazzo e tutti coloro che sono morti e moriranno per una guerra superflua? E già che ci siamo, quali sono suoi progetti per terminarla, questa guerra?
Le infilo nella busta una foto del mio Joni. Era un bel ragazzo, vero?
Me lo guardi bene negli occhi. No, non sposti lo sguardo. Lo guardi bene. Doveva proprio morire? Lei è proprio sicuro che non c'era un'altra scelta?
Attendo con ansia una sua rapida risposta.»

Scopri su Maremosso tutti gli articoli che approfondiscono il conflitto in corso

L'articolo di Giorgio Scianna sulla guerra, attraverso le parole di David Grossman

L'articolo di David Bidussa su Gaza, ieri e oggi
Il punto di vista di Enrico Deaglio su una possibile escalation dopo lo scontro a fuoco a Jenin nel gennaio 2023

L'approfondimento di Wuz sulla storia e la letteratura della Palestina
L'approfondimento di Wuz sugli autori israeliani

L'intervista di Wuz a Shlomo Ben-Ami, figura di spicco nella risoluzione del conflitto a Camp David

I libri per approfondire gli scrittori israeliani

Le diciotto frustate

Di Assaf Gavron | Giuntina, 2019

Lettera d'amore e d'assenza

Di Sarai Shavit | Neri Pozza, 2023

Sette anni di felicità

Di Etgar Keret | Feltrinelli, 2016

Stupore

Di Zeruya Shalev | Feltrinelli, 2022

21 lezioni per il XXI secolo

Di Yuval Noah Harari | Bompiani, 2019

Valzer con Bashir. Una storia di guerra

Di Ari FolmanDavid Polonsky | Rizzoli Lizard, 2023

La traccia dei mutamenti

Di Sayed Kashua | Neri Pozza, 2019

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