Giovedì 15 dicembre
Sballottati come siamo tra lo scandalo/questione morale di Panzeri e del Qatar, lo scandalo – altra questione morale - di Soumahoro e dei vestiti della sua bellissima moglie, lo scandalo – questione nazionale - dei bilanci allegri della Juventus, è forse passato sottotono l’ingresso nel carcere di Opera dell’ex senatore Antonio D’Alì, 71 anni, definitivamente condannato dalla Cassazione a sei anni per favoreggiamento di Cosa Nostra, e in particolare per aver protetto nei decenni la latitanza del più famoso boss ancora sulla piazza, il misterioso Matteo Messina Denaro.
Per rimediare a questa dimenticanza racconto qui, in breve, una storia tipica dell’Italia di ieri ma probabilmente anche di oggi.
Antonio D’Alì è discendente di una nobile famiglia di baroni che dominano la provincia di Trapani da secoli.
Monopolisti del sale italiano, proprietari terrieri di sconfinati latifondi messi a grano e vigneti, dominano dal loro palazzo di tufo una città in cui – ancora adesso – si sostiene che la mafia non esiste. I D’Alì, invece, la mafia la conoscevano bene e con lei avevano buoni rapporti.
I loro campieri garantivano l’ordine nelle campagne ed erano benvenuti a palazzo. Negli anni sessanta e settanta, la banca dei D’Alì, “Banca Sicula”, improvvisamente aprì settanta sportelli nella provincia di Trapani, ufficialmente in fondo alle statistiche sul benessere.
La Banca Sicula, come Giovanni Falcone scoprì per primo, era la banca dell’eroina: ai suoi sportelli arrivavano i pagamenti dagli Stati Uniti e dal Canada, in cospicui assegni inviati a contadini poveri, dai loro generosi cugini d’oltreoceano.
La banca venne poi ceduta alla Commerciale di Milano, e non se ne parlò più.
Nei primi anni Novanta, Antonio D’Alì si innamorò del nascente partito Forza Italia e ne fu tra i fondatori, insieme a Marcello Dell’Utri.
Nel 1994 fu eletto senatore, carica che tenne fino al 2018, e nei governi Berlusconi II e III, D’Alì fu addirittura sottosegretario al ministero degli Interni, posizione di alto potere.
Tra i campieri del barone c’era un certo Ciccio Messina Denaro, che come spesso succede in quelle lande, pian piano, da dipendente divenne padrone.
Suo figlio è l’ormai famoso Matteo Messina Denaro, l’ultimo Padrino, come si usa dire. Ebbene, il senatore D’Alì – così dice la sentenza – ha passato la vita a proteggerlo. Ma non bisognava dirlo! Chi scrive lo sa bene, perché, per averlo scritto parecchi anni fa, fu alacremente perseguito dal senatore (ma vincemmo).
Capisco che siano storie vecchie, ma visto che il tema interessa a Carlo Nordio, il nuovo ministro della giustizia, sarebbe interessante riaprire il fascicolo per scoprire quanto la magistratura abbia protetto il barone, e se in trent’anni il suo telefono sia mai stato messo sotto controllo.
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