"La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità" - Paolo Borsellino
Le parole del giudice ucciso assieme agli uomini della sua scorta il 19 luglio del 1992, a Palermo, mentre si recava a far visita alla madre, continuano ad interrogarci e a dividere: ma il fatto che la sua figura e la sua opera continuino a suscitare dibattito, a trent'anni dalla strage di Via D'Amelio, testimonia soltanto della forza dirompente che quella stagione continua a esercitare sulla società civile.
Borsellino aveva ben chiara la posta in gioco della lotta che assieme al collega e amico Giovanni Falcone aveva mosso a Cosa Nostra. Ne aveva ben chiaro il perimetro, ne conosceva le forze in gioco e sapeva bene qual era il prezzo che avrebbe pagato in prima persona per aver condotto una lotta senza quartiere contro la criminalità organizzata.
“Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.
"Altri": ecco la parola chiave in un silenzio che dura da trent'anni. "Altri": come i mandanti che armarono il braccio dei killer e ne consentirono l'impunità. "Altri", come quelli che sottrassero dal luogo della strage l'agenda rossa nella quale erano probabilmente raccolti nomi eccellenti che testimoniavano collusioni indicibili con la mafia.
Cucendo insieme ricordi e punti di vista diversi, questo libro illumina la figura di Paolo Borsellino da una prospettiva nuova e racconta – attraverso la voce dei protagonisti – «una delle pagine più vergognose e tragiche della storia giudiziaria italiana».
Oggi, a quella inscalfibile alterità si oppongono le voci di quelli che "altri" non sono: la famiglia Borsellino, Lucia, Fiammetta e Manfredi, i tre figli del giudice e di sua moglie Agnese (scomparsa nel 2013) finalmente arrivati a reclamare uno spazio che per troppo tempo è stato occupato abusivamente da chi non ne avrebbe avuto i titoli.
Fiammetta ha preso la parola pubblicamente nel 2017, in occasione del venticinquennale della strage, e la sua voce è risuonata come un atto d'accusa anche - e soprattutto - nei confronti di tutti quegli attori (anche istituzionali) che si sono prestati ad alimentare equivoci e avallare depistaggi.
Da quel momento, sono successe tante cose, alcune delle quali decisamente clamorose, come l'incontro avvenuto in carcere, a porte chiuse, fra la stessa Fiammetta e Giovanni Graviano, accusato (assieme a suo fratello Filippo) di essere stato il mandante dell'omicidio di Borsellino (per approfondire la storia dei Graviano, c'è la nostra intervista con Enrico Deaglio a proposito del suo libro Qualcuno visse più a lungo. La favolosa protezione dell'ultimo padrino). Perché? Ce lo spiega Melati, con parole che danno la misura di quanto il concetto di "altro da sé" sia esattamente lo specchio deformato che tutti dobbiamo imparare a leggere correttamente, se vogliamo evitare narrazioni semplificate e fuorvianti di quel che accade.
"Fiammetta ha voluto incontrare Graviano per un suo percorso personale, per compensare al tradimento delle istituzioni consumatosi in questi trent'anni per fare qualcosa con le sue proprie mani, per colmare quella che è stata una mutilazione, la morte del padre. Solitamente, in questi casi, la società e le istituzioni coccolano e aiutano le vittime. A loro è successo l'opposto: i Borsellino si sono trovati isolati, traditi da un depistaggio, calunniati, spesso insultati. Credo che Fiammetta abbia maturato la scelta di fare questo percorso dicendosi che non voleva farlo per perdonarli, non voleva farlo per odiarli, non voleva farlo per avere verità - perché non credeva che loro gli avrebbero detto chissà quali verità - ma voleva fare esattamente come faceva suo padre: incontrare l'altro da sé, quello che abitualmente riteniamo essere il mostro e ce ne teniamo ben a distanza".
Ecco, fra le tante verità scottanti e a lungo taciute di cui il libro di Piero Melati è prodigo, quella forse più scomoda e difficile da accettare: in tutte le storie di mafia, anche nelle più crudeli e violente, non ci sono mostri, ma solo uomini. Noi, che vogliamo la verità per capire cosa accadde veramente in Via D'Amelio e nei palazzi del potere, possiamo guardarli negli occhi, e nello sguardo che gli rivolgiamo, trovare noi stessi.
Di
| Feltrinelli, 2021Di
| Mondadori, 2021Di
| Chiarelettere, 2022Le nostre interviste
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