Per comprendere la figura e il profilo di Woodrow Wilson (1856-1924) forse la cosa più semplice è cominciare dalla fine.
Il 3 febbraio 1924, quando Woodrow Wilson muore è l’ombra di se stesso. Le sue condizioni fisiche e di salute sono ormai compromesse da tempo, da quel 2 ottobre 2019 quando lo coglie un attacco apoplettico che lo rende inabile. Quell’attacco segna la sua rapida scomparsa dalla scena politica.
Per certi aspetti, simbolicamente, con quella uscita si segna un momento essenziale della storia del’900. Salito con rapidità sulla scena mondiale in seguito al «prima sbarco» degli Stati Uniti in Europa (con l’intervento dell’esercito USA nel blocco dell’Intesa contro gli imperi centrali nella primavera 1917) Wilson ne è uscito rapidamente già nell’estate 1919.
Il suo piano di pacificazione e di progetto di «pace per sempre» non regge ai tormenti e ai malesseri dei nazionalismi europei. Allo stesso tempo la sua opinione pubblica interna pensa che i malesseri dell’Europa siano «fatti loro» per cui meglio «ritirarsi nel proprio guscio» e conservarsi in un prudente «isolazionismo».
Quella avventura era cominciata diversamente e soprattutto, apparentemente, con il consenso di molti, anche le voci apparentemente più inaspettate. Per esempio, Benito Mussolini, il quale su Il Popolo d’Italia così scrive il 5 gennaio 1919 (l’articolo si intitola “L’impero di Wilson”) nel giorno in cui Wilson sta per arrivare a Milano dopo aver visitato Roma, Genova (e lì reso omaggio alla tomba di Giuseppe Mazzini) nel suo percorso verso la Conferenza di pace di Parigi che si aprirà due settimane dopo, il 18 gennaio 1919. Così scriveva Mussolini:
…i popoli aggrediti sentono che Wilson farà giustizia e terrà conto di quelle che sono le necessità nazionali. Wilson ha vinto il suo orrore umano per la guerra e ha fatto la guerra. Noi crediamo che il suo spirito eminentemente pratico e fattivo si piegherà a conciliare i dettami dell’idealismo colla realtà. La Società delle Nazioni non esclude, anzi presuppone, quasi come pregiudiziale ferrea, alla soluzione dei problemi nazionali. Le nazioni, come l’umanità hanno dei diritti, anche l’Italia ha i suoi diritti, chiari e legittimi, che non possono essere sacrificati. Lo vietano 460 mila morti.
Poi repentinamente, cambia idea e si smentisce (secondo una consuetudine molto consolidata e diremmo tradizionalmente «italiana»).
Una settimana più tardi, l’11 gennaio, Mussolini sarà insieme ai futuristi a contestare Leonida Bissolati, il principale portavoce italiano delle idee e del progetto di Wilson, impedendogli fisicamente di tenere il discorso al Teatro alla Scala dove avrebbe dovuto esporre le linee del piano Wilson per la pace; il 23 marzo Benito Mussolini fonda il movimento fascista in piazza San Sepolcro; il 15 aprile viene dato l’assalto alla sede del quotidiano socialista, l’Avanti!, in via San Damiano.
In quella svolta ancora Mussolini non è «il capo». La figura di riferimento è D’Annunzio che il 15 gennaio, 1919 nel documento (più noto come Lettera ai dalmati, pubblicato su vari quotidiani e in opuscolo il 15 gennaio 1919) scrive, prefigurando ciò che accadrà pochi mesi dopo con l’avvio dell’impresa di Fiume:
Io e i miei compagni non vorremmo più essere Italiani di una Italia rammollita dai fomenti transatlantici del dottor Wilson e amputata dalla chirurgia transalpina del dottor Clemenceau
Quel che fu gridato al popolo di Roma in una sera di tumulto, vale anche per oggi, ancor più vale per oggi. «Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance!» Se sarà necessario, affronteremo la nuova congiura alla maniera degli Arditi, con una bomba in ciascuna mano e con la lama fra i denti”.
Ha scritto lo storico Giovanni Scirocco in un saggio dal titolo Sette giorni a Milano «come quella sequenza di date (e in particolare la contestazione a Bissolati) abbia costituito il primo episodio di quella saldatura tra fascisti, nazionalisti, arditi, futuristi che troverà nella questione di Fiume un simbolo e sarà destinata successivamente a concretizzarsi, con alterne vicende, nella creazione del PNF».
Le settimane tra gennaio e giugno 1919 che segnano la definizione dei trattati di pace (con lo smembramento degli imperi, le dure condizioni inflitte alla Germania e il non riconoscimento delle richieste italiane, mentre Francia e Gran Bretagna si spartiscono i possedimenti coloniali delle potenze sconfitte), complessivamente, non solo in Italia si profilano come il primo segnale della lenta perdita di forza politica della proposta di Wilson e anche il rapido crollo del suo carisma politico.
Ricostruire un quadro di pacificazione di lunga durata nell’Europa appena uscita dal conflitto, e avviare con la fondazione della Società delle Nazioni, che riconosceva nei suoi 14 punti per la pace la traccia fondamentale per marcare una nuova stagione di politica internazionale. Questo era il nodo della sua proposta.
Quel progetto Wilson lo aveva illustrato al Congresso americano l’8 gennaio 1918, ovvero mentre la guerra era ancora in corso. In quel testo invocava tra l’altro: la fine delle barriere economiche, la fine della diplomazia segreta, l’attuazione di un piano complessivo di disarmo generale, lo sviluppo autonomo dei poli dell’ex-impero austro-ungarico, la nascita di un’organizzazione internazionale che si facesse garante delle nuove regole: La Società delle Nazioni.
Dunque Wilson arriva in Europa nel dicembre 1918 avendo dietro di sé una scia di attenzione che però presto si ritorce contro di lui. I vincitori della guerra sono troppo impegnati a rivendicare sui perdenti le loro rimostranze; e la forza dei nazionalismi non è in sintonia con il quadro di “pace perpetua” disegnata dal Presidente americano.
Presto anche la sua opinione pubblica avverte il dopoguerra come un peso e lentamente la perdita di consensi in Europa si traduce in perdita di consensi in casa, negli Stati Uniti. Il dato simbolico è che in autunno 1919 il Congresso americano esprime parere contrario all’ingresso degli Stato Uniti nella Società delle Nazioni. Il conferimento del Premio Nobel per la pace nelle stesse settimane per certi aspetti è l’unico riconoscimento che ottiene Wilson mentre quel dopoguerra che sognava «senza più guerra» ripiega su se stesso.
Tuttavia sarebbe sbagliato ridurre Woodrow Wilson solo a questa dimensione e a questa scena finale. La sua storia politica è interessante per molti aspetti come ha ricostruito con attenzione lo storico Jacopo Perazzoli, storico in una monografia pubblicata di recente e dedicata alla sua figura: Per la pace del diritto.
La questione Wilson non è solo importante perché ci sono assonanze profonde con il nostro presente relativamente al rapporto (incerto, inquieto, sospeso,…) tra Stati Uniti e Europa, ma anche per le molte questioni interne della realtà sociale statunitense.
Su quelle Perazzoli indaga con attenzione nel suo libro. Per esempio le politiche doganali, l’intervento in merito e intorno alla questione raziale che negli anni della sua presidenza (1912-1920) ma anche in quelli della sua esperienza di governatore della Virginia volta a favorire le politiche di emancipazione dei neri d’America, ma allo stesso tempo, anche a mantenere una struttura gerarchica che del resto le stesse leggi di abolizione della schiavitù prevedevano di tenere in vita.
Una politica che con gradazioni diverse si applicava anche alla regolamentazione dei flussi migratori in ingresso dall’Europa tra fine Ottocento e vigilia della Prima guerra mondiale.
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