Passato di letture

L'occupazione italiana in URSS raccontata da Raffaello Pannacci

Non fu una bella guerra quella combattuta contro l’Unione Sovietica.

La crociata antibolscevica, fortemente voluta da Mussolini per ragioni di prestigio, catapultò un quarto di milione di italiani nelle steppe russe. Dopo le prime fulminanti vittorie rincorrendo la Wehrmacht, il Corpo di Spedizione italiano (CSIR), poi aumentato fino alle dimensioni di armata (ARMIR), si trovò di fronte la durezza degli scontri di guerriglia e i contrattacchi feroci della macchina da guerra sovietica decisa a ricacciare dalla propria terra gli invasori.

L'occupazione italiana in URSS. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-43)

Quasi due anni di presenza sul posto, circa 250.000 uomini in campo, una delle peggiori sconfitte dell'esercito italiano, un'infinità di memorie di guerra pubblicate. Eppure, la campagna di Russia è ritenuta un teatro bellico eccentrico, è stata più volte definita “la guerra dei tedeschi” e resta tuttora un tema poco praticato dagli storici, in specie per quanto riguarda l'occupazione militare.

Di quella Russia, in Italia, si parlò molto dopo il 1945. Grazie a testimonianze preziose dal punto di vista storico e letterario (su tutti Bedeschi, Rigoni Stern, Revelli) nell’immaginario comune si sono solidificate le immagini della disastrosa ritirata a cui furono costretti decine di migliaia di soldati italiani: le privazioni, il freddo, l’abbandono da parte di quadri militari e alleati. La Russia, nell’immaginario collettivo italiano, è ancor oggi in larga parte “la ritirata” di Russia, iniziata nel gennaio del 1943 con la sua dimensione eroica e stracciona. Ma pochi ancora oggi si pongono una delle domande fondamentali per comprendere quell’epopea, e cioè: cosa ci faceva un’intera armata italiana nelle steppe russe nel gennaio 1943? Che guerra fu, quella combattuta prima della disastrosa ritirata? Gli italiani come furono, come invasori?

L’occupazione italiana in URSS, la presenza fascista tra Russia e Ucraina (1941-1943) di Raffaello Pannacci (Carocci, 2023) è una preziosa sintesi di quei mesi che pone in luce uno dei momenti meno indagati dell’avventurismo fascista. Con testimonianze, fonti primarie e analisi il saggio mette in risalto la complessa realtà di una guerra che in Italia suscitò da principio simpatie e speranze nell’opinione pubblica: una guerra che prometteva vittorie e bottino in un paese «barbaro ma ricchissimo».

Imbevuti di propaganda fascista, i soldati italiani misero a punto un sistema di occupazione che vessava le popolazioni, giustificando di volta in volta i soprusi con scuse come l’inferiorità dell’occupato o con le difficoltà del territorio. Quando la scommessa mussoliniana si trasformò in uno dei più grandi disastri della storia militare nazionale, migliaia di soldati provarono a scappare non solo dai sovietici ma anche dalle responsabilità di mesi di angherie nei confronti dei civili. Fu sull’oblio che un’intera generazione costruì il mito della propria bontà: un mito la cui nascita fu possibile solo concentrandosi sulla brutalità sovietica e dimenticando il proprio ruolo di occupanti e rastrellatori; ponendo l’accento sugli episodi di collaborazione della popolazione locale ma scordando le fucilazioni sommarie, gli eccidi, gli stupri e le rapine; scaricando la colpa di tutto sui tedeschi ma tralasciando che una parte non piccola del regio esercito conosceva, approvava e partecipava al Vernichtungskrieg, la guerra di annientamento contro ebrei e slavi.

Una memoria dolosamente parziale, che è giusto oggi ricostruire sui fatti e non sui desideri.

Non leggetelo se vi piace il lieto fine: questo libro fa male.

Non leggetelo se nella storia cercate i buoni e i cattivi: il passato è un luogo sfumato.

Non leggetelo se credete anche voi nel motto «Italiani brava gente»: rimarreste delusi.

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