La storia di Cesare Cassi (1901-1967) si compone di due aspetti: uno canonico e uno eccentrico. Consideriamo quello canonico. Cesare Cassi: militante comunista, dirigente e impegnato in attività politica nel partito dalla fondazione del partito, funzionario e attivo nel lavoro clandestino fino all’arresto (1° luglio 1927) e alla condanna (quindici anni di reclusione che sconta a Volterra e poi a Spoleto). In carcere, rimarrà per 2589 giorni senza rispondere alle domande dell’inquirente. Dopo quasi sette anni, infatti, il 12 maggio 1934 chiede la grazia ed è scarcerato il 1° agosto dello stesso anno.
La vicenda di Cassi, raccontata attraverso le 278 lettere che scrisse alla famiglia negli anni del carcere, consente di affrontare l’inedito nodo dei detenuti politici che sotto il fascismo decisero di chiedere la grazia (e spesso la ottennero), un fenomeno non insignificante a livello quantitativo, ma quasi ignorato dalla storiografia.
Consideriamo quello eccentrico. Della esperienza carceraria sotto il regime si sono avuti tre tipi di scenari che si sono costruiti nella memoria pubblica: chi esce dal carcere per fine pena; chi si uccide perché teme di trasformarsi in delatore (il caso più emblematico è quello di Umberto Ceva che si suicida nella notte di Natale del 1930); chi muore per le sofferenze fisiche.
Cesare Cassi non rientra in nessuno di questi casi. Chiedere la grazia, infatti, non era contemplato nel manuale del prigioniero politico. Semplicemente è una «cosa che non si fa». Nell’immaginario del manuale del militante comunista (Agosti e Cassi ricordano le osservazioni di Pietro Secchia e le memorie di Antonio Pesenti) l’intransigenza è la maschera di ferro del prigioniero politico che non si piega.
La firma per la grazia lo mette fuori dal partito senza possibilità di ritorno o di rientro. Gli rimarrà la famiglia, l’affetto della moglie che è stata con lui in tutte le sue scelte, un figlio che solo al suo ritorno a casa conoscerà per davvero (e che vivrà vent'anni dopo la stessa vicenda di esclusione).
La politica lo espelle classificando come tradimento la condizione di crisi che precede quella firma (una condizione che Gramsci aveva inquadrato con chiarezza in una lettera del marzo 1933 e che giustamente Agosti e Cassi propongono all’inizio di questo libro come strumento per capire).
Una vicenda che solo le 278 lettere conservate dalla famiglia di Cassi hanno consentito ai due autori di ricostruire e di proporre con delicatezza, finezza e attenzione. Un libro che è anche una dimostrazione che la scrittura storica non è solo «fatti», ma è anche sensibilità capacità di scavo, dedizione.
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