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Intendo smetterla col cinema. È troppo per me. Non ci riuscirò mai.
Quando nel 1972 Charlie Chaplin riceve l’Oscar alla carriera, la platea gli tributa la più lunga standing ovation nella storia della cerimonia. La motivazione del premio riassume bene il peso cinematografico di Chaplin: “per il suo incalcolabile apporto nel rendere il cinema la forma d’arte del XX secolo“.
Nato a Londra il 16 aprile 1889, la sua infanzia è segnata dalla povertà e dal disagio. Il padre è un attore di varietà con problemi di alcolismo che lo condurranno a una morte precoce, la madre è un’attrice con poca fortuna, afflitta da disturbi mentali. Dai genitori, che si separano poco dopo la sua nascita, Chaplin eredita la passione per il palcoscenico, esibendosi fin da bambino. Appena maggiorenne entra nella celebre compagnia teatrale di Fred Karno e durante una tournée si fa notare negli Stati Uniti, dove nel 1914 esordisce al cinema.
Insieme a Buster Keaton, s’impone come il più grande talento comico dell’epoca, sublimando la commedia slapstick e contribuendo in maniera decisiva all’evoluzione del linguaggio cinematografico.
Chaplin crea il personaggio di The Tramp (noto in Italia come Charlot), il “Vagabondo” maldestro con baffetti, bombetta, bastone da passeggio, vestiti sgualciti, che scavalla i confini del cinema affermandosi come un’icona globale, simbolo di speranza nonostante le storture della società.
Per decine di corti Chaplin interpreta quella maschera, diventando la star più pagata di Hollywood. La consacrazione arriva con il suo primo lungometraggio Il monello (1921), in cui Charlot si prende cura di un neonato abbandonato, vivendo poi di espedienti con il bambino. Per la prima volta un film si propone di fare ridere e piangere, e quella diventerà la cifra del suo cinema — del resto, parole sue, “la vita è una tragedia se vista in primo piano, ma è una commedia se vista in campo lungo”.
Assieme agli illustri colleghi David Wark Griffith, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, fonda la casa di distribuzione United Artists sfidando il sistema delle major americane per poter gestire in piena autonomia ogni fase della lavorazione dei suoi film, a partire dal dramma La donna di Parigi (1923), il primo titolo in cui non recita. Poi torna ad indossare i panni del Vagabondo in La febbre dell'oro (1925), Il circo (1928) e nel commovente Luci della città (1931) dove si innamora di una fioraia cieca. Da un capolavoro all’altro, ecco Tempi moderni (1936), strepitosa critica sociale — ancora straordinariamente attuale — sull’alienazione dell’uomo-operaio nel sistema industriale (esilarante la gag della macchina da nutrizione che dovrebbe cibare Charlot mentre lavora sulla catena di montaggio).
Nel frattempo, da circa un decennio il cinema ha conosciuto l’avvento del sonoro anche se Chaplin si limita a introdurre la musica ma non i dialoghi — in una scena di Tempi moderni, con un colpo di genio, fa ascoltare per la prima volta al mondo la sua voce cantando però una canzone con parole senza senso.
Con un finale struggente, in Tempi moderni Chaplin si congeda dalla sua maschera e dal cinema muto. Il suo primo film parlato è Il grande dittatore (1940) dove fa la parodia di Hitler — memorabile la sua danza col mappamondo — che viene scambiato con un barbiere ebreo. Chaplin stavolta usa la voce per pronunciare uno dei discorsi pacifisti più famosi di sempre, un toccante appello all’umanità, proprio all’alba della Seconda Guerra mondiale.
Attorno a Chaplin intanto si addensano le nubi del maccartismo: accusato di essere comunista e attaccato per la turbolenta vita privata, è costretto a lasciare gli Stati Uniti — l’ultimo film girato a Hollywood è il malinconico Luci della ribalta (1952) — per trasferirsi in Europa. Con le commedie Un re a New York (1957) e La contessa di Hong Kong (1967), unico suo film a colori e in cui dirige Marlon Brando e Sophia Loren, si chiude la sua irripetibile carriera.
L’Oscar onorario è il modo che l’America ha di chiedergli scusa e rendergli omaggio. Un riconoscimento indiscutibile e in fondo persino superfluo. Se si volesse per gioco rappresentare il Novecento con poche immagini, una di queste sarebbe il volto di Charlie Chaplin.
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